Ricordiamoci di Gandhi

Dopo il Vietnam, una sosta febbricitante a Bangkok ed eccoci pronti a scappare verso il mare della Thailandia.

Inizialmente vi era indecisione nel nostro mini gruppo “Avventure Lente nel Mondo”: non sapevamo se fare tappa lungo la costa sud-orientale, alle isole di Koh Samui, Koh Phangan e Koh Tao, oppure tirare dritto e puntare subito alla penisola di Railay, nella provincia occidentale di Krabi. Finalmente la scelta era ricaduta su Krabi, ma l’illusione è durata poco… giusto due giorni, giusto il tempo di capire che Railay Beach non era il posto paradisiaco tanto agognato.

Considerazioni sul maltempo a parte, che ha influenzato non poco lo spirito di due inguaribili meteoropatici quali siamo, eravamo convinti che avremo sguazzato in chimeriche acque turchesi!! Non prima di aver provato la gioia fastidiosa dei finissimi granelli di sabbia bianca tra i capelli. Avevamo cliccato millemila immagini su Google… Dov’erano, dunque, il mare da sogno, l’arena caraibica ed il sole??

Eccola qui, la nostra colpa generazionale!!

“Mannaggia a voi, viaggiatori dell’era tecnologica”, dirà qualche vero backpacker dei bei tempi andati… “Una volta i posti si scoprivano di persona, o al massimo attraverso qualche fotografia stampata sulla guida”. E invece NO!! Noi siamo quelli della verità in tasca, formato smartphone, salvo poi scoprire, come in questo caso, che la verità del web è spesso effimera ed illusoria… solo che non ce ne rendiamo conto.

E così, da buoni “impacchettatori” quali siamo, abbiamo preso “baracca e burattini” e siamo ripartiti, di nuovo. Da Railay Beach ritorno in giornata a Krabi e poi giù… ancora più a sud.

L’isola di Koh Lipe ha mostrato da subito, con fierezza, i suoi migliori biglietti da visita: cielo terso e acqua trasparente hanno subito cancellato la fatica delle 24 ore di viaggio spese per arrivarci. In poco più di mezz’ora, eravamo sistemati in un’accomodation economica nella meno frequentata Sunset Beach, immersi nel verde, lontani dal vialetto centrale, dove s’incastrano negozietti e ristoranti… totalmente appagati da uno splendido balconcino vista mare.

Evviva!! Non avremmo potuto sbagliare due volte di fila, no?

“Aaaah… Koh Lipe…!” Il piacere dello spostamento senza ausilio di motori, le lezioni di Ashtanga Yoga con la dolce Keira e le coccole agli affettuosi randagi disseminati sui gradini dei locali, un po’ dappertutto. Nuotate interminabili, snorkeling e kayaking a Sunrise Beach, la giocoleria con il fuoco la sera, sulla spiaggia di Pattaya, i pancake alla Nutella e gli shake di frutta fresca della signora “Yoohooo”, che ulula strani richiami per attirare la clientela.

 

Tutto perfetto, MA…

Nelle nostre storie c’è spesso un “MA”. Già, siamo un tantino noiosi talvolta, ma non possiamo dimenticare di raccontarvi anche l’ALTRA parte della storia.

Koh Lipe fa parte delle 51 isole del Parco Nazionale di Tarutao, non raramente definite le “Maldive thailandesi”; offre un ecosistema ricco di biodiversità e per tale ragione, durante l’alta stagione (da settembre a febbraio), i visitatori devono pagare una tassa aggiuntiva sottoscritta a tutela dell’area protetta. Nei mesi di maggior frequentazione, il Parco è ufficialmente aperto ed è quindi possibile raggiungere anche le altre isolette circostanti, che non sono abitate, per praticare snorkeling e diving ed ammirare tutto un mondo sommerso. Accanto a cotanta bellezza e all’inestimabile ricchezza naturale del luogo, tuttavia, si nasconde la minaccia dei rifiuti: la “perla” del Mar delle Andamane non è zona franca del sacchetto.

La mattina del secondo giorno, consumando la colazione in terrazza, avevamo notato della plastica galleggiante nelle acque di Sunset Beach, a circa una cinquantina di metri di distanza da noi. Forse un miraggio? Purtroppo no.

Girovagando per l’isola, quello stesso giorno, non abbiamo potuto fare a meno di notare che i rifiuti erano una presenza costante; sulle spiagge, “risputati” dall’inarrestabile danza dell’alta e bassa marea, abbandonati ai bordi delle stradine, più o meno nascosti tra la vegetazione, talvolta palesemente ammucchiati in punti non ufficialmente adibiti alla raccolta, ma da qualcuno scelti come tali.

Inutile dire che ci siamo incavolati parecchio, ancor di più quando un ristoratore italiano ci ha raccontato che, in bassa stagione, la situazione è aggravata dal fatto che vi è un minore afflusso di turisti. I più credono sia un problema tipicamente asiatico, ma non è del tutto vero; a suo dire, anche parte dei residenti occidentali si sarebbe adeguata alla trascuratezza ambientale dell’isola (forse lui stesso s’includeva nel gruppo dei “cattivi”, dato che era solito lanciare la sigaretta il più lontano possibile dal posacenere…).

Che fare dunque? Disperare, andare a giro per Koh Lipe con grande rabbia, insultando tutti quanti, fare ritorno sulla terraferma anticipatamente?

Dobbiamo ammettere che avevamo pensato seriamente di andarcene, ma non saremmo stati coerenti con quanto scritto in uno dei nostri ultimi post: guardare oltre, sempre. Ed è così che, tra una parola di lamentela e l’altra, abbiamo scovato il manifesto di “Trash Hero”, un chiaro invito a partecipare ad una mattinata di raccolta rifiuti di gruppo. Un’idea alquanto interessante e propositiva!

L’insegnante di yoga Keira ci ha spiegato che avremmo potuto raggiungere direttamente Pattaya Beach il lunedì mattina, verso le 10, oppure fare l’iscrizione anticipatamente al ristorante OMG, da un gentile signore con capelli lunghi e tatuaggi, un po’ stile “ultimo dei Mohicani”, di cui ora purtroppo non ricordo il nome. Noi, prontamente, ci siamo presentati presso il locale, giusto per avere qualche informazione organizzativa in più e capire meglio il “Trash Hero pensiero”.

Dal dicembre del 2013, la missione di “Trash Hero” è creare progetti comunitari sostenibili per l’eliminazione dei rifiuti esistenti e la riduzione di quelli futuri, ispirando un cambiamento di comportamento a lungo termine. Tutto ciò prevede:

-Azione e consapevolezza: attraverso la raccolta, che si tratti di una sigaretta sulla strada o di 20.000 chili di plastica sulle spiagge, e la sensibilizzazione della coscienza collettiva; la speranza è che chi aderisce alle iniziative giornaliere possa acquisire più consapevolezza riguardo la trascuratezza del mondo.

-Educazione: “Trash Hero” s’inserisce nel mondo della scuola, spiegando ai più piccoli l’importanza dell’azione e fornendo informazioni educative inerenti l’impatto dei rifiuti sull’ambiente globale.

-Progetti sostenibili: ovvero progetti a lungo termine che mettono insieme le comunità per rimuovere, gestire meglio i rifiuti e pianificare strategie che riducano le quantità in futuro.

-Ispirazione: i volontari dalla maglietta gialla motivano gli altri a diventare Trash Heroes nella loro vita quotidiana. Dopo l’esperienza in Thailandia, alcuni hanno continuato la loro eroica “clean-up” in altre parti del mondo. Ora il movimento è presente anche in Malesia, Indonesia, Filippine, Birmania, Cina e New York…. ma può espatriare ovunque!! 

L’ ”ultimo dei Mohicani” ci ha spiegato che chiunque può essere un “Trash Hero”, è facile!

L’ “eroe dei cestini” è colui che spreca il meno possibile, ma riutilizza tutto quel che può; lavora per preservare e migliorare gli spazi in cui si trova, OVUNQUE essi siano. Sembrano idee scontate e più che ovvie, ma camminando per Koh Lipe ti rendi conto che nulla è scontato. Messaggi con tua sorella che sta in Italia, per raccontarle che hai scoperto questa bella iniziativa, e lei ti racconta che la scorsa settimana, nelle nostre amate montagne piemontesi, hanno scaricato un frigorifero in disuso… Qualcuno, lì vicino, ha pensato bene di metterci anche un televisore; magari il frigorifero si sentirà meno solo. E allora dici “Sì, confermo; l’ovvietà delle cose è puramente soggettiva. Partecipo.” 

Il 3 giugno eravamo circa una ventina di stranieri, tra i quali due famiglie del nord Europa con ben 5 bambini di età compresa tra i 3 e i 9 anni, tre volontari thailandesi permanenti e una ventina di Rangers del Parco di Tarutao. In 40 minuti, via long tail boat, abbiamo raggiunto l’isola di Koh Hin Ngam e lì abbiamo dato inizio all’”esplorazione” della spiaggia rocciosa. Premesso che l’acqua era ancor più sorprendente di quella vista a Koh Lipe (probabilmente per via del fatto che le isolette intorno non sono abitate), non si poteva dire altrettanto della riva: scarpe, bottiglie, pezzi di polistirolo, accendini, torce, sedie, reti di pescatori… e via dicendo! Vi lasciamo piacevolmente immaginare il tanfo dei rifiuti, raccolti in una giornata in cui facilmente ci saranno stati 40 gradi all’ombra (e non è un modo di dire!). Dalle 9 alle 12 circa, con una pausa ristoro a base di acqua ed anguria, abbiamo lavorato seriamente, bambini inclusi!

Ma perché bisognerebbe andare a raccogliere 63 sacchi di plastica, vetro e quant’altro, quando il meglio sarebbe stare in panciolle sulla pulitissima Sunrise Beach? Lì dove i proprietari delle più belle accomodation garantiscono un eccellente livello di pulizia.

Beh, se non volete farlo per l’anguria e l’acqua gratuiti vi capiamo… forse, essendo in vacanza, avrete preso qualche chilo e una mattinata con Trash Hero potrebbe farvi sudare più di un’ora di palestra. Interessante, ma non sufficientemente motivante. Potrebbe essere carino per il tragitto in barca, che vi offrirà l’opportunità di vedere altre isole del parco di Tarutao e magari anche lo slancio giusto per fare qualche tuffo. Oppure potreste incontrare persone simpatiche e piacevoli, come i danesi Linda e Jesper, con i biondissimi figli Anna e Jacob, e i loro amici connazionali, temporaneamente residenti a Bangkok. Sappiate che anche il pranzo è incluso e lo consumerete tutti insieme, prima dei saluti, presso un resort sulla spiaggia di Pattaya.

Il proprietario offre il pasto tutti i lunedì, da quattro anni a questa parte, che ci siano due o cento volontari da sfamare! Se vogliamo andare più a fondo, alla ricerca di nobili ed etiche motivazioni, possiamo dirvi che di fatto, pur non ignorando la materia (quanta raccolta differenziata a casa, quante giornate educative a scuola, con i miei bambini!!), la partecipazione concreta ha davvero risvegliato la nostra coscienza collettiva. Saremo anche dei buoni differenziatori in Italia, ma vedendo la situazione in cui versano queste coste… direi che potremmo fare tutti di più, non solo in termini di comunità locale. Oggi più che mai, il mondo ha bisogno degli “eroi dei cestini”, di persone attente e rispettose sempre, che non si danno colpetti sulla spalla per quanto già stanno facendo, ma piuttosto si chiedono cosa ancora potrebbero fare.

Noi, al termine della giornata, eravamo nauseati dalla vista di tanta plastica… per non parlare poi del polistirolo, che si sminuzza in infiniti, minuscoli pezzettini e finisce ovunque. Così abbiamo pensato di comprare le borracce marchiate “Trash Hero”, disponibili in diversi punti vendita di Koh Lipe. Negli stessi, così come in diversi ristoranti, caffetterie ed hotel, si trovano inoltre i distributori di acqua GRATUITA per i sostenitori della causa. Un ulteriore incentivo ad abbandonare la bottiglia di plastica del “7Eleven”!!

Questo è stato il nostro piccolo primo passo.

Sarà forse un singolo giorno a cambiare il mondo? Non il globo intero, d’accordo, ma l’esperienza potrebbe offrirvi la giusta ispirazione per apportare una piccola rivoluzione quotidiana ed è da noi che tutto ha inizio. Sarebbe facile dire semplicemente che “tanto non si può far nulla perché non ripuliremo l’intera Asia partecipando ad un evento”. Ma se questo fosse il pensiero di tutti, Trash Hero non avrebbe ragione d’esistere e sarebbe un vero peccato. 

Ricordiamoci delle parole di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”. O almeno prova ad esserlo, potrai sempre dire di aver fatto del tuo meglio.

Good Morning, Vietnam!

Un mese di Vietnam letteralmente volato. Hanoi, Sapa, l’isola di Cat Ba, Da Nang, Hoi An, Dalat e Ho Chi Minh: queste le nostre tappe. 

Avevamo già espresso le impressioni su Hanoi, da lì siamo saliti a nord, a Sapa: discese mozzafiato nelle risaie, lungo sentieri scoscesi e fangosi per via delle abbandonanti piogge; verdi ma anche macchiati di colori… quelli dei costumi tipici delle donne delle etnie degli H’Mong neri, degli Dzao rossi e degli Zai… e quelli delle giacche a vento dei numerosi turisti che ogni giorno raggiungono i villaggi di Lao Chai e Ta Van, a soli 15km da Sapa. Sapa è carina, ma, a dir la verità, l’atmosfera è ormai parecchio deviata dal business. Le donne locali vedono nel turista bianco una possibile fonte di guadagno e a loro pare non importi molto della cementificazione selvaggia della montagna. Alcune su esplicita domanda, rispondono: “Per noi è meglio adesso; voi, forse, preferireste vedere meno alberghi, ma noi dobbiamo vendere”.

L’ isola di Cat Ba, dal canto suo, non ci ha regalato acqua cristallina e spiagge da sogno come speravamo… ma piuttosto bagni in tiepide acque, corse spensierate in motorino e un’interessante visita alla grotta che veniva utilizzata come ricovero ed ospedale per gli abitanti, in passato minacciati dalle bombe americane.

 

A Da Nang, la statua di Lady Buddha e le Montagne di Marmo ad accoglierci… e poi via, verso Hoi An, la città delle lanterne: un vero spettacolo camminare tra le strette viuzze del centro accompagnati da una miriade di luci colorate.

                                          

Ma la vera luce, la più importante, si è accesa per noi a Dalat, dove siamo entrati a stretto contatto con una famiglia locale. Archiviata la triste esperienza di Chiang Mai, abbiamo deciso di riprovare con il sito Workaway, e siamo così approdati al Mooka’s Home Hostel. La giovane Van gestisce l’ostello insieme al marito Phuč e al supporto “morale” del piccolo Mooka, cui va il merito per il fortunato nome di quest’oasi per backpackers di tutto il mondo.

Sono bastati una ventina di minuti per la spiegazione delle nostre mansioni: erano le 7 di mattina e noi speravamo tanto in un riposino, poiché reduci da una nottata di viaggio… e invece no, abbiamo iniziato all’istante. Stefano in cucina, alle prese con uova strapazzate, all’occhio di bue, zuppe di noodles con maiale o noodles fritti con carne di manzo; a me sono toccate le ordinazioni e la caffetteria. Neanche il tempo di far salire l’ansia da prestazione… eravamo già catapultati nella routine del Mooka’s Home.

Le ore del pomeriggio libere, oltre alla domenica tutto il giorno, e la sera di nuovo impegnati per la preparazione delle cene condivise, aperte a tutti gli ospiti dell’ostello: cibo tipico vietnamita oppure barbecue. Difficoltà con le richieste incomprensibili di alcuni australiani (ma siamo sicuri parlino inglese? Talvolta a me pare un misto tra inglese, russo, arabo, cinese; livello di comprensione… molto scarso), qualche piatto non proprio perfetto, ma nulla di preoccupante. Van e Phuč ci hanno accolti a braccia aperte, sempre pronti a giustificare ogni minimo errore, sempre pronti a ringraziare al termine di ogni servizio. Agli ospiti, che si sono chiesti chi diamine fossero i due bianchi dello staff, hanno risposto: “Loro sono Giulia e Stefano, ci danno una mano per un po’; sono della famiglia”. Hanno messo a nostra disposizione una stanza privata in cima al palazzo, pasti e bevande, nuove ricette e aneddoti legati alla cultura locale.

Fantastico!

Van ci ha spiegato quanto sia importante, per le donne vietnamite, dedicare il giusto tempo al riposo e al recupero delle forze dopo il parto; spesso la neo mamma torna a casa dai genitori, come lei stessa ha fatto, per essere accudita al meglio durante i primi tre mesi di vita del bambino/a. Ci ha svelato i segreti di alcuni impacchi a base di erbe, utili per favorire il ricovero della pelle. Un argomento serio, che di norma nessuno definirebbe divertente… se non fosse che poi penso a Stefano, costretto a prendere appunti riguardo i miracolosi rimedi post partum, mentre io ero impegnata con il piccolo Mooka.

Già, Mooka… la nostra mascotte.

Nonostante i suoi 10 mesi, è stato un vero protagonista durante la permanenza all’ostello. Il lavoro per la preparazione di colazioni e cene non era poco, ma sempre ripagato dalle sue fragorose risate e i sorrisoni sdentati. Nei tempi morti abbiamo badato a lui con piacere e senza alcuna difficoltà. L’unico avvertimento dei genitori: “State attenti che non ci veda, altrimenti potrebbe frignare un po’”. Per il resto, piena fiducia. E noi l’abbiamo coccolato, strapazzato di baci e fotografato ripetutamente, per essere sicuri di non dimenticare quel bel visino paffuto.

I 10 giorni a Dalat sono stati incredibili sotto diversi punti di vista; nel nostro tempo libero abbiamo scoperto le cascate di Pongour , visitato una piantagione di caffè e una farm dove si allevano grilli. Ci siamo divertiti scoprendo la folle Crazy House, nata dal genio di una donna ispirata da Gaudì, e abbiamo trovato il tempo per gli ultimi saluti con il nostro amico Gianluca Maffeis, più conosciuto come “Operazione Giro del Mondo”. Lui il giro del globo lo farà per davvero, mentre per noi si avvicina il momento del ritorno: per un po’ non incontreremo più il simpatico bergamasco dalla folta barba.

Ma come faremo a dimenticarci del Vietnam dunque?? Impossibile. In un mese non abbiamo fatto altro che ripeterci: “Torneremo; resta ancora molto da vedere… e da Rivedere. 

Non ti preoccupare se non abbiamo esplorato i villaggi sui monti, nella parte nord-est del Paese. Torneremo e ci spingeremo fin lassù”. Torneremo per percorrere i famosi sentieri di Ho Chi Minh sulle due ruote, ma anche per prendere il largo tra i faraglioni della Baia di Ha Long, considerata una tra le sette meraviglie naturali del mondo. Torneremo per l’onestà di quel tour operator che semplicemente ci ha detto: “Volete vedere un bel mare? Non cercatelo lungo la costa dell’ isola di Cat Ba, andate a Malta. Io ho studiato inglese proprio lì, vicino a casa vostra”. Un bello smacco, ma anche un bel punto a favore del Vietnam, in barba ai tanti che avvertono: “Attenti alle fregature”! Sarà vero, forse, ma ogni storia è a sé… non si può generalizzare e questo esempio lo dimostra. 

Torneremo per le ciabatte di plastica traforate, tutte uguali, le vedi ovunque. Quando prendi un bus notturno ti fanno levare le scarpe. Alla tappa “autogrill” si scende tutti coordinati, tutti con le ciabattine dello stesso colore. Le stesse che i ragazzi di Dalat usano per andare sullo skate. Torneremo per quella tazza di tè verde gentilmente offerta al momento dell’ordine, in quasi tutti i locali, ma anche per pagare volentieri un caffè all’uovo, oppure quello servito con gelato o smoothie al cocco. Il Vietnam é il secondo esportatore al mondo di caffè… E chi lo sapeva?? 

Per la zuppa Po Bo, per il latte condensato, che scorre a fiumi, per il panino Ban Mi, mangiato ad ogni ora e farcito, tra il resto, con  della strana “paglia”… che loro semplicemente chiamano “porco”. E quindi cosa sto mangiando? Meglio non indagare oltre… Meglio scegliere la variante vegetariana. 

E poi vorremmo comprare un cappello a cono, cantare in un karaoke, di quelli autentici, dove si fa fatica a tenere il microfono per i litri e litri di “Saigon Beer”… vorremmo osservare il traffico allucinante dei motorini, tantissimi elettrici, talvolta impegnati in folli corse contromano. Ancora più folli se il guidatore é una giovane mamma che ha pensato bene di sistemare una sediolina di legno davanti alla sella, per il povero figliolo. 

Vorremmo dire ancora “Xin chāo” , che si pronuncia “sin ciao”, perché sarà probabilmente la forma di saluto più facile da ricordare per noi; ma anche sperare in altri incontri interessanti, come quello con una coppia di giovanissimi viaggiatori tedeschi: poche chiacchiere ed un viaggio in taxi sufficienti per rimediare un invito dal loro italianissimo zio Luigi, produttore di vino sulle colline dell’astigiano. E chi se lo dimentica lo spettacolo alla Opera House di Ho Chi Minh? Il biglietto includeva anche un massaggio in una bellissima SPA e quindi per una volta non si è badato per nulla al budget. Nessun pentimento, soldi davvero ben spesi.Vorremmo vedere ancora le ragazze che vanno in spiaggia con tuta, cappello e mascherina, per non diventare troppo scure. Usano vagonate di creme schiarenti, mentre noi occidentali ci sistemiamo sul lettino unti d’olio, nella speranza di rientrare dalle ferie quanto più neri possibile!!

Hanno ragione coloro che vanno dicendo: chi nasce riccio vorrebbe essere liscio, e viceversa. Ad ogni latitudine il suo pensiero.

 

 

A volte puoi vedere il bene anche nel male

Bangkok è stata la nostra “tappa riposo” dopo il mese all’insegna dell’avventura con il minivan. Qui, tra una lavatrice e un giro in centro, abbiamo preso decisioni importanti, applicando il VISA per il Vietnam, un Paese che a dir la verità non avevamo preso in considerazione all’inizio del viaggio.

Bangkok è una grande città, è vero, ma è anche un posto che amiamo. Stefano dice che per lui è un po’ come “una seconda casa” e considerato che questo era il suo quinto ritorno, beh… io gli credo.
Sarà per quel contrasto tra i grandi ed altissimi palazzi e i piccoli banchetti di cibo lungo strada, tra l’imprenditore che beve caffè da Starbucks e la famiglia che mangia la zuppa sul marciapiede, a 30 centesimi (speriamo che la campagna di “abbellimento delle strade”, lanciata dall’amministrazione negli ultimi mesi, non abbia seguito…altrimenti i banchetti di strada spariranno!!). Sarà che poi ti puoi far tirare un po’ dalle sapienti mani di quelle piccole quanto forti massaggiatrici thai. Sarà che qui ritroviamo il nostro amico Mattia, con cui facciamo sempre grandi mangiate. C’è casino ma, almeno per noi, è un “casino vivibile”.

Bangkok ci fa anche un po’ arrabbiare a volte… Come quando abbiamo letto che i proprietari di “Turtle House”, dove visse lo scrittore e giornalista Tiziano Terzani, stavano per acconsentire all’abbattimento: una meraviglia di legno eliminata in favore della causa del cemento. Noi abbiamo deciso di andarci di persona, per ammirarla dal vivo e raccontare la vicenda (vedi post precedente): come se il solo fatto di visitarla potesse servire a qualcosa.

Ma forse Bangkok ci offrirà un altro motivo per tornare con il sorriso sulle labbra, perché un’associazione italiana pare ora interessata all’acquisto e alla salvaguardia della casa! Notizia delle ultime settimane…Speriamo!!

Dopo 10 giorni nella capitale, avendo scelto di raggiungere via terra il Vietnam, ci siamo mossi verso il nord della Thailandia, a Chiang Mai, e la tranquillità del posto ci ha subito convinto a prendere qualche giorno di stop in più. Viaggiando da parecchio tempo, abbiamo iniziato ad accusare il colpo del nostro essere perennemente, o quasi, sulla strada ed in noi è ritornata la voglia di sperimentare qualcosa di nuovo. La stessa voglia che in India ci aveva “spinti a rallentare”… convincendoci a sostare per un po’ negli ashram di Gokarna e Amritapuri.

Perché non provare con “Workaway”?

Workaway è una piattaforma online che mette in contatto persone di tutto il mondo: su un fronte si trovano gli “hosts”, coloro che richiedono un aiuto o, in altri termini, offrono qualunque genere di lavoro, in base alle esigenze personali. Sull’altro, quelli che sono disposti ad accettare di dare quella mano in più per 5/6 ore al giorno, a volte anche meno.
I primi guadagnano un supporto nelle loro attività, i secondi usufruiscono di vitto e/o alloggio gratuito e hanno la mezza giornata libera da spendere nel luogo e nei dintorni.
Entrambe le parti traggono profitto dall’incontro e dalla conoscenza reciproca. Tanto più che chi utilizza Workaway, spesso, lo fa in terra straniera, per visitare posti nuovi risparmiando e contemporaneamente avere un contatto genuino con la gente locale.
Al termine dell’esperienza, si possono lasciare recensioni, cosicché sia garantita una certa sicurezza, sia per chi ospita, sia per chi è ospitato.
Insomma, eccezion fatta per rari casi di sfiga (……..), si va a colpo sicuro!

Dopo l’iscrizione al sito e il pagamento della quota richiesta, abbiamo trovato piuttosto velocemente ciò che pareva facesse al caso nostro: un uomo che chiedeva aiuto in attività di giardinaggio e pulizia nel suo centro yoga, in cambio di lezioni gratuite, anche di massaggio thailandese, e pernottamento.
Siccome erano inclusi gli insegnamenti in due ambiti di nostro interesse, non ci siamo posti alcun problema per l’esiguo contributo richiesto per i pasti e abbiamo contattato l’uomo.

La Yoga House di San Pa Tong è immersa nella campagna, a 20km circa dal centro di Chiang Mai. La posizione è ottima e la natura circostante la rende una vera e propria oasi di pace.
MA, questo il nome del proprietario, si è presentato in modo gentile e pacato, un perfetto padrone di casa sulla quarantina, fisico da atleta e tatuaggi in bella vista.
In lingua italiana “ma” indica una congiunzione avversativa che lega due proposizioni in contrapposizione; può anche essere utilizzata come sostantivo maschile con significato d’ incertezza, perplessità, difficoltà. Esempio: “Con tutti i tuoi ma, non combinerai mai niente”. Dovevamo forse farci qualche domanda in più dall’inizio??
Scherzi a parte, il primo impatto era stato positivo; avevamo la nostra casetta, piuttosto spartana ma carina, uno spazio comune con amache e lettini di bambù e la piacevole compagnia di altri 3 ragazzi, arrivati a San Pa Tong seguendo la nostra stessa via, utilizzando il sito di Workaway. Il lavoro era concentrato in un paio d’ore la mattina, poiché in seguito il caldo raggiungeva livelli esagerati. Si trattava per lo più di ripulire le rive adiacenti alla proprietà da rami e tronchi abbattuti in precedenza. Il cibo era vegetariano, fresco, gustoso e in parte proveniente dall’orto dell’uomo. Nel pomeriggio avevamo tutto il tempo libero del mondo, per un bagno nel vicino canyon, per letture personali, scrittura o riposo.
Fin qui nulla di strano.
Così sembrerebbe, se non fosse che Workaway, come detto sopra, non implica esclusivamente lo scambio materiale (lavoro VS alloggio), ma è soprattutto occasione di condivisione e confronto.

MA non ha mai voluto condividere il momento dei pasti con noi ragazzi, perennemente relegati nella zona della cucina comune, situata a debita distanza dal suo alloggio. Riguardo gli insegnamenti promessi, non ha fatto altro che ripetere che lo yoga potevamo farlo in autonomia, seguendo qualche video on line. Nessun riferimento ad eventuali nozioni di massaggio da lui possedute.
E poi gli eventi sono via via degenerati.

Alla Yoga House, oltre ai ragazzi, avevamo conosciuto Brian, un americano di 50 anni che si era presentato come volontario part time: la sua intenzione era quella di trascorrere mezza giornata con noi per dare una mano, ma pernottare in città. Nonostante la grande differenza d’età, Brian aveva conquistato il gruppo con la sua simpatia… E, a dire il vero, anche con qualche merenda che era solito acquistare per noi.

Un giorno, avendo colto l’interesse di Brian in merito alla cucina italiana, avevamo deciso di organizzare un semplice pranzo a base di pasta fatta a mano: volevamo spiegare a tutti come preparare dei veri gnocchi al pomodoro! L’iniziativa, che a noi pareva piuttosto divertente, è stata il prologo della catastrofe: MA non ha in alcun modo preso in considerazione la possibilità che ciò avvenisse, manifestando totale disappunto a riguardo e un inspiegabile attacco d’ira, rivolto in particolar modo  all’americano, invitato a non presentarsi più presso la Yoga House.
Era un diritto di MA esprimere parere contrario, non lo neghiamo, ma perché scegliere una tale modalità di comunicazione?
Pranzo made in Italy saltato, ma soprattutto prime vere preoccupazioni da parte nostra.

L’episodio che ci ha convinto a terminare in anticipo l’esperienza Workaway si è verificato nel fine settimana, quando ci siamo recati in città, a Chiang Mai, per attività di volantinaggio e la visita al Night Market. MA, non solo non è stato con noi ragazzi… si è presentato all’appuntamento stabilito, prima del rientro, ubriaco ed euforico, con ulteriori bottiglie di alcool da stappare una volta ritornati alla Yoga House. Siamo ripartiti alla volta di San Pa Tong, ovviamente spaventati, e pregandolo più volte di limitare la velocità del suo enorme Suv.
Niente da fare, in risposta alle nostre richieste, siamo stati derisi ed umiliati. L’uomo diceva che noi non avevamo rispetto per lui e per la sua macchina, fatta appositamente per l’alta velocità. Rientrati sani e salvi, abbiamo deciso di abbandonare la Yoga House nella notte, prima che MA potesse ulteriormente aumentare il suo tasso alcolico. E così abbiamo fatto, verso le 22 ci siamo messi in marcia.
Dopo soli 20 minuti, una mietitrebbia, scortata da due pick-up, si è fermata in nostro soccorso. Una famiglia thailandese ci ha fatto accomodare nel cassone posteriore di una delle due auto per condurci al sicuro, nuovamente a Chiang Mai. Avanti e indietro tra la città e la campagna, nessun problema. Volevamo solo che tutto ciò finisse. Il viaggio di 30 km sotto il cielo stellato è stato uno dei momenti migliori della settimana.

In seguito, abbiamo segnalato la situazione al sito di Workaway, per evitare che altri possano approdare qui in futuro, alla ricerca di un’ esperienza che assolutamente non è quella descritta dall’uomo sul suo profilo. Una sola lezione di yoga in 7giorni, nessun momento di condivisione in merito alle nostre differenti culture, nessuna introduzione al massaggio thailandese. E inoltre imprevedibilità, sbalzi d’umore e difficoltà di comunicazione.

Quindi? Rimane solo l’amaro in bocca?

Questa volta un pochino sì… Ma occorre osservare con occhi attenti. Dietro la nostra brutta esperienza, restano altri ricordi piacevoli. Primo fra tutti, l’incontro con gli altri “workawayers”, due tedeschi e una norvegese, giovani quanto in realtà già maturi, sia per le esperienze di vita precedenti, sia per quelle di viaggio in corso.

Tutti in giro per il mondo in solitaria, unico obiettivo quello di conoscere e scoprire nuovi Paesi, culture e anche se stessi: Katrina, ex soldatessa al confine russo-norvegese, Judith, 26enne esperta della meditazione Vipassana, e Felix, che i suoi 21 anni non li dimostra affatto, dato che vive in Uganda ed insegna in una scuola per bambini disabili. Roba da far drizzare i peli se poi pensi a quel che facevi tu a 21 anni…
Poi c’è stata la famiglia thailandese, che non ha esitato mezzo secondo per offrire aiuto: presi, caricati e “salvati”, non potevamo chiedere di più quella notte. E la conoscenza di Brian, cui finalmente siamo riusciti per davvero a preparare gli gnocchi! A Chiang Mai, a casa di un altro americano.
Poteva andare meglio, sì, ma poteva andare anche peggio. Noi siamo felici di poter dire che, almeno in parte, è andata per il verso giusto.

Il passo successivo? Noi volevamo davvero imparare qualche nozione di massaggio thai e questa volta la fortuna non è mancata: sono bastate poche chiacchiere con una ragazza conosciuta a Chiang Mai, per scovare la “Khunchamnan Family Massage”, ancora una volta in campagna, ma in direzione opposta, nel distretto di San Kamphaeng.

Max e la moglie Namphetch hanno venduto l’attività commerciale e da un paio di anni si sono rifugiati a ridosso della giungla, in un terreno che confina solamente con le piantagioni di banani e manghi dei genitori di Namphetch. Il padre di lei, quasi ogni giorno, attende il buio per uscire a caccia di rospi ed insetti, che poi rivende al mercato del paese.
Due piccole casette, lo spazio essenziale per vivere, una piscina riempita con l’acqua pompata direttamente dal terreno, e l’unica preoccupazione di insegnare l’arte del massaggio ad un numero massimo di 4 studenti alla volta. La sera i grilli avvertono che è il momento di andare a dormire, la mattina il sole delle 5.30 dice che è ora di alzarsi. “C’è poco da fare”, afferma Max. “Molti vengono e poi scappano perché dicono che è un posto noioso”. A noi è parso il paradiso.
Tre ore di lezione al mattino, tre al pomeriggio, specialità della cucina thai, una biciclettata fino al tempio del paese, un caffè nel piccolo bar dove l’ insegna recita “Coffee and Cappuccino”, ma se provi a ordinare in inglese ti guardano come fossi pazzo. E poi il tempo.
Tempo per apprendere meglio, per recuperare da quella fuga nella notte da San Pa Tong, che forse ha lasciato qualche strascico d’ansia. Tempo per pensare e per fare mente locale: un altro mese é passato, il Vietnam ci aspetta.
E poi il volo di ritorno? Lo compriamo? Proviamo a decidere un itinerario di qui alla fine?
Forse è ancora presto, ma intanto dobbiamo tenerlo a mente. Il tempo scorre e non così Lentamente come speravamo.

Insomma, a differenza di quanto era successo alla Yoga House, presso la “Khunchamnan Family Massage” abbiamo goduto appieno dell’esperienza e della bellezza della natura thailandese.

L’ingresso in Laos ha riservato la scoperta dell’inesistenza del visto di transito gratuito in cui riponevamo fiducia. Pensavamo di non pagare nulla e invece alla frontiera abbiamo sborsato 35 dollari a testa, indipendentemente dal tempo di permanenza in terra laotiana. Così, sulla via del Vietnam, per non “buttare via” i soldi del visto, abbiamo fatto tappa a Vang Vieng, la folle città dei party, evitata alcuni anni fa, nel timore che fosse solamente un posto per i maniaci della festa e nulla più. A Vang Vieng impazza la moda del “tubing”, la lenta discesa lungo fiume con ciambellone gigante e l’unica preoccupazione di bere quanto più alcool possibile. Le famose “lagune blu” della zona sono carine, ma per lo più pozze a pagamento dove più che un angolo di natura, è possibile assaporare l’invasione eccessiva dei turisti.

Perché allora non concedersi semplicemente un giro in motorino o in bicicletta, per esplorare i dintorni e ammirare la meraviglia del paesaggio carsico, il lento scorrere del Song e magari scattare foto nei villaggi più lontani dal centro? Forse ci siamo persi qualcosa evitando l’arrampicata ed il kayaking, ma nonostante la tentazione, il desiderio di stare lontano dalla folla ha avuto la meglio. Ce la siamo vissuta così Vang Vieng, tranquillamente, ed è andata bene.

Dal Laos è iniziata l’odissea di 36 ore verso la capitale del Vietnam. Un viaggio su un pullman notturno con sedile reclinabile monoposto, stile Formula 1. In compagnia di una decina di locali, un mix di thailandesi e vietnamiti, e altri cinque stranieri abbiamo varcato la frontiera di Nam Phao.

Arrivati ad Hanoi, abbiamo scelto un ostello situato nella parte vecchia della città, spinti dalla curiosità di scoprire quell’intricato groviglio di stradine, colme e stracolme di persone, banchetti e motorini.
Abbiamo sorriso scoprendo le prime insegne giganti; luminose e non, ma sempre e comunque dai caratteri esageratamente grandi. Come a dire: “Ti voglio far capire bene cosa vendo'”. E poi i marciapiedi, disseminati di piccole sedie, tavolini e carretti che sono cucine ambulanti, per mangiare a qualunque ora del giorno e della notte. Se poi non c’è posto non importa, ci si siede tranquillamente per terra. Non è un problema, l’importante è che nella zuppa ci sia davvero il pollo e non uno di quei cani arrosto che non è nemmeno tanto difficile scovare.


Affascinanti il mausoleo di Ho Chi Minh e il Tempio della Letteratura, ma imperdibili, almeno per noi, un giro nei dintorni del “Lago della Spada Restituita”, per vedere gli arzilli nonnini che si dilettano con il Tai Chi, e il caffè caldo con crema all’uovo del Café Pho Co. L’ingresso ricorda la Provenza francese e la bevanda con vista aggiunge un tocco memorabile al luogo.

Questo Vietnam CI PIACE (salvo per i cani arrosto, ovvio)! Vedremo cosa riserverà da qui in poi!!

Qualcuno può salvare “Turtle House”?

“Turtle House” non è un ricovero per tartarughe anziane o abbandonate, né un ente di protezione o un’associazione di animalisti thailandese.

Per la verità, fino a poco più di 30 giorni fa, una testuggine ultracentenaria nuotava nelle acque dello stagno centrale; un’altra si trova ancora lì, ma non è chiaro se anche il suo tempo stia per scadere o meno.

La fama dell’abitazione, però, non è dovuta a questo.

“Turtle House” è una casa immersa in un’area verde di circa 1000 metri quadrati, all’incrocio tra Soi Sukhumvit 49/1 e Phrom Mit Alley, al numero 18, nel cuore della ultramoderna Bangkok, nel centro di una città che è tutta un inno al cemento e ai nuovi cantieri: sempre di più e sempre più in alto. Già questo potrebbe bastare a garantirle lo status di “perla rara”; già questo potrebbe essere sufficiente a combattere la battaglia contro quel giovane proprietario che ora si dice intenzionato a raderla al suolo. Nemmeno i 6000 euro al mese offerti da una coppia americana per aprirvi un ristorante sembrano fare gola. Lui ne vuole ben 4 milioni di euro, altrimenti farà abbattere tutto per poi vendere il terreno a uno dei tanti acquirenti che sognano di costruire, proprio lì, l’ennesimo palazzo.

Fortunatamente, per ora, l’anziano padre resiste e si oppone a una simile barbarie. Non a caso si dice che anzianità sia sinonimo di saggezza.

Ma per quanto tempo ancora potrà farlo?

“Turtle House” è la casa dove visse il noto giornalista e scrittore Tiziano Terzani, italiano di Orsigna, ma collaboratore storico del giornale tedesco “Der Spiegel”. La carriera da corrispondente lo tenne lontano dalla patria per moltissimo tempo, speso tra Cina, India, Cambogia, Vietnam, Giappone e Thailandia. Qui arrivò nel lontano 1990, dopo che un amico gli disse che stava facendo le valige. Terzani si era innamorato del luogo tempo addietro, quando gli fece visita, e così non ci pensò troppo. Trasferì bagagli e famiglia a Bangkok.

Se vi trovate in questa enorme metropoli, rinunciate ad una visita come quella al tanto rinomato quanto super turistico e finto “Floating Market” e recatevi in questo luogo invece autentico, immerso nel silenzio e nel verde di una piccola giungla tropicale. Lì troverete il custode Kamsing, con la moglie, un uomo dalla risata contagiosa, nonostante la condizione che lo vede quasi sfrattato dal luogo dove ha vissuto gli ultimi 37 anni della sua vita. Fatevi incantare dai suoi racconti, perché lui con Terzani ha vissuto per davvero. Ha lavorato per lui e ne conserva una buonissima memoria. Vi mostrerà tutti gli angoli più nascosti di “Turtle House”, sarà lui stesso a dirvi di scattare più fotografie possibili, poiché nessuno sa se questo posto meraviglioso potrà sopravvivere nel tempo. Vi dirà che Terzani, quand’è arrivato, ha voluto rimodernare tutto; sia quella che poi sarebbe diventata l’ abitazione personale dello scrittore, sia quella della sua famiglia.

“Era tutto bianco” ha raccontato. “Tiziano ha detto tutto rosso, tutto rosso”, riferendosi al rosso-granata che ancora si vede sui muri esterni delle due costruzioni. Vi dirà che con Terzani e la sua famiglia ha trascorso un tempo meraviglioso; lo scrittore organizzò e pagò per lui addirittura la festa di matrimonio.

Qui, due ristoranti nel tempo ci sono stati, ma ora nessuno ha a disposizione l’enorme capitale richiesto dal giovane rampollo thailandese. Su altri blog avevamo letto la medesima vicenda e a noi, dopo la visita, è salita la stessa voglia di raccontare questa storia. Pare poco credibile che le istituzioni italiane non possano fare nulla per salvare parte della memoria del famoso scrittore. Terzani ci ha regalato una testimonianza dei drammi delle guerre del XX secolo, dei suoi viaggi, da un paese all’altro, alla ricerca di una verità storica e personale. Viaggi alla scoperta del mondo, ma anche di se stesso.

Siamo sicuri di non voler aprire un museo in suo onore in quella casa?

Italiani, rinunciamo tutti quanti, per un solo giorno, ad un espresso al bar. Destiniamo il montepremi del Superenalotto alla causa. Raccogliamo un euro da ciascun biglietto d’ingresso a tutti gli stadi di calcio dello “stivale”, per una, due o tre domeniche. Quant’è necessario.

Scherzi a parte, se di scherzi si tratta, potremmo iniziare firmando la petizione a questo link:

Salviamo Turtle House 

Nessuno, davvero, può salvare “Turtle House”?

Noi ne saremmo tanto felici; e anche il signor Kamsing, ne siamo sicuri.

Sri Lanka…una forza della natura!!

Gli ultimi giorni d’India li avevamo trascorsi nella cittadina di Kochi, nel Kerala, alla ricerca di una barca che ci portasse lontano dal Paese, in direzione est. Avendo verificato l’inesistenza di trasporti turistici autorizzati, telefonicamente, avevamo avuto l’“ok” della Marina locale a richiedere un eventuale passaggio ai proprietari di imbarcazioni private. 

“Se trovate qualcuno disposto a portarvi con sé, dovrete semplicemente recarvi presso il nostro ufficio per ottenere il timbro d’uscita dallo Stato indiano”.

Nessuna illegalità sarebbe stata commessa dunque, a dispetto dei tanti avvertimenti ricevuti nei mesi scorsi.

 Ma la fortuna non era dalla nostra.

Premesso che i privati erano ancorati a Bolgatty Island e non a Wllingdon, com’era stato scritto da qualcuno, l’unica vela prossima alla partenza era diretta altrove, in Sudafrica. Nonostante l’iniziale resistenza a fronte dell’idea di salire nuovamente su un aereo, il desiderio di rimanere in Asia era troppo forte per metterlo a tacere.

Così abbiamo semplicemente deciso di seguirlo, comprando un biglietto con destinazione Colombo. Ancora via cielo, ancora una volta abbiamo deciso che i nostri piedi si sarebbero sollevati da terra per permetterci di raggiungere una nuova destinazione.

Lo Sri Lanka è un piccolo “puntino”, un’isoletta situata a soli 35 km dalla costa sud-orientale dell’India. La sua storia recente parla di sangue e violenza, di una guerra che, per oltre un ventennio, l’ha tenuta lontana dalle rotte turistiche internazionali. Fino al 2009, al nord, gli scontri tra lo Stato e le Tigri Tamil erano “roba da tutti i giorni”, con casi di attentati e rapimenti nemmeno troppo sporadici. Oltre alle vittime decedute sotto il fuoco delle armi, questo conflitto si è macchiato ulteriormente d’orrore con il dramma dei bambini-soldato. Un altissimo numero di minori strappati alle famiglie ed addestrati all’arte dell’odio, arruolati tra le fila dei combattenti adulti.

Gli adulti… gli stessi che dovrebbero avere cura di loro, anziché mandarli a morire. Adulti come quelli che, al termine della guerra, hanno portato i piccoli superstiti nei “campi di rieducazione”. Ma è davvero possibile “ri-educare” una mente umana che ha vissuto simili atrocità? Difficile da credere.

Le principali guide turistiche, oggi, rammentano di prestare attenzione agli evidenti segni di quel terribile passato, soprattutto nella penisola di Jaffna: edifici semidistrutti che versano in stato di abbandono, avvertimenti diffusi che consigliano di non lasciare per nessuna ragione le rotte battute, a causa del rischio di mine inesplose. Basi dell’Esercito e della Marina disseminate ovunque, tanto che in alcuni casi è obbligatorio invertire la rotta e tornare indietro per raggiungere la propria meta, poiché interi tratti di strada sono chiusi al traffico dei civili.

Sì, quei segni ci sono. Forse sono gli stessi che, per il momento, tengono lontane le folle di stranieri dall’estremo nord.

Ma questa non è la sede dove approfondire la storia. Se volete, noi ve lo consigliamo, potrete farlo qui:

Sri Lanka: le conseguenze della guerra etnica

La NOSTRA storia non parla di violenza, né di paura come si potrebbe pensare dopo aver letto le righe poco sopra. Tutt’altro.

Parla di accoglienza e sorpresa, di emozioni e di grandi sorrisi, ricevuti da tutti coloro cui abbiamo raccontato di essere a zonzo per l’isola con un minivan. Sorrisi che si sono allargati ancor di più quando mostravamo il materasso matrimoniale piazzato nel retro e la zanzariera gigante, adibita a ricoprire l’intero mezzo durante la notte. Gli srilankesi erano meravigliati dalla nostra stravagante idea di viaggio. Qualcuno era addirittura preoccupato.

La NOSTRA storia parla dei militari di Mannar e delle guardie notturne di Kalpitiya, che ci hanno invitati a dormire nelle vicinanze di una base militare e di una scuola di kite surf, affinché non “campeggiassimo” nel bel mezzo del nulla. Ci hanno pensato loro a vegliare su di noi con le luci delle torce e dei fari. Qui si racconta di uomini che hanno aperto le porte delle loro guesthouse per offrire gratuitamente un posto tenda nel giardino o un parcheggio sicuro per la notte. C’è chi ha messo a disposizione la sua spartana quanto avventurosa casa sull’albero per permetterci di riposare, chi addirittura ha cucinato il tipico “rice and curry”, affinché lo gustassimo non come clienti paganti, ma come famigliari invitati a cena.

É una storia di bellissimi incontri, di persone accoglienti e curiose, divertenti e divertite dallo scambio di poche parole e di tante “selfie”.

L’idea di affittare un mezzo si è rivelata vincente sotto più punti di vista; non solo abbiamo sperimentato un nuovo stile di viaggio, ma soprattutto abbiamo guadagnato una libertà che con i mezzi pubblici non avremmo potuto avere. La libertà che, in più di un’occasione, ci ha permesso di arrivare in un luogo e poi decidere di abbandonarlo nel giro di dieci, venti minuti, oppure mezza giornata. Nessuna prenotazione, nessun itinerario da rispettare. Se poi capita di trovare una camera a 6 dollari, con tanto di fornello per cucinare una pasta o un piatto di verdure, ben venga. Tanto più se poi quello “stop” ti regala la piacevole compagnia di una coppia, per metà srilankese e per l’altra olandese.

Treni ed autobus sono super economici a confronto, ma non saremmo qui a scrivere queste parole se non avessimo agito come abbiamo fatto. Non potremmo raccontare dell’uomo del chiosco dei succhi di frutta che, con un accenno d’inglese, ci ha mostrato il bagno di casa. “Free free” ha detto, indicando anche il sapone. Era preoccupato di saperci con due taniche d’acqua da 5 litri ciascuna, nascosti chissà dove, per una “doccia in natura”.Non potremmo dire nulla nemmeno della signora di Nuwara Eliya. A lei una doccia calda l’abbiamo “scroccata” per davvero: era un giorno di temporale e lavarsi all’aperto non era di certo l’idea migliore. Non solo ci ha fatti accomodare, acconsentendo alla nostra strana richiesta, ma ne ha approfittato per preparare una tazza di tè e raccontare un po’ dei suoi figli.

Forse non avremmo potuto scrivere di aver visto elefanti camminare lungo la carreggiata nelle ore del tramonto, tartarughe di terra impegnate in passeggiate pomeridiane o granchi correre sull’asfalto durante le ore più buie. E poi i mille e mila uccelli avvistati, di ogni dimensione e colore; i pavoni, uno su ogni albero, dietro ad ogni angolo, le lontre, i bufali e le iguane. Senza il nostro furgoncino non avremmo potuto attraversare l’area del Willipattu National Park, fermarci per una sosta e scoprire che, dentro ad una pozza, nuotavano circa una decina di alligatori.

Lo Sri Lanka è una forza della natura!

Dopo 25 giorni, la strada ci ha riportati lì dove tutto era iniziato, a Negombo, una cittadina a circa 40 km dalla capitale. 25 giorni e 2400 km di pura incertezza, di allegria, di risvegli sudati alle 6 della mattina, quando il caldo già ti fa sclerare; di snorkeling tra gli squali a Trincomalee,

di tuk tuk adibiti a panetterie ambulanti, di poliziotti che si scusano per averti fermato, di testuggini giganti fotografate a riva. Di inviti a cerimonie conquistati con il solo “merito” di essere italiani; il festeggiato in questione era un neonato e la festa quella del suo Battesimo: lui non poteva scegliere se invitarci o meno, ma il padre, espatriato per 15 anni a Firenze, l’ha fatto per lui. Giorni da principianti del surf nella “patria dell’infradito” e della cucina tutta “carbo” e poca verdura. Casomai te la mostro al mercato, ma al ristorante no… non te la cucino proprio!

Una strada disseminata di meraviglie, paesaggistiche ed umane, che lentamente si sono guadagnate le prime pagine dell’album dei ricordi più belli vissuti fino ad oggi.

 

Un abbraccio grande come il mondo

Prima di incontrare Amma, avevamo un po’ scordato quanto possa essere confortante, emozionante e caldo un abbraccio. Quel gesto che conduce l’altro verso di te… solleva gli arti e con quelli ti avvolge, dolcemente. Tante volte nella vita ne abbiamo ricevuti: dai famigliari, fin dai primi giorni di vita, dagli amici, spesso per farci consolare dai dolori più inconsolabili, e poi tra noi come coppia… ce ne siamo regalati a migliaia. Forse per questo li avevamo relegati tra quei gesti abitudinari, quelli che fanno parte di una routine ormai assodata.

Ma quanto è forte l’abbraccio che si riceve da qualcuno che non vediamo da tempo? O quello di un ragazzo al primo appuntamento? O di una ragazza, s’intende.

È forte, sì… indimenticabile. Dovremmo ricordarcelo ogniqualvolta ci abbandoniamo tra le braccia altrui. Perché l’abbraccio è un dono sempre, reciproco e prezioso. Noi ad Amritapuri, nel sud del Kerala, abbiamo aspettato ben 7 giorni per l’abbraccio di Amma, una donna indiana che a malapena conoscevamo.

Avevamo già sentito nominare Amma, in televisione, o su qualche giornale, o forse qualche amico l’aveva citata in una non ben definita occasione. Quando i ragazzi italiani conosciuti a Varkala ci hanno parlato per la prima volta di Amritapuri, non eravamo troppo convinti che fosse il posto per noi.

“Cosa ci andiamo a fare? Non sappiamo nulla di questa donna.” Anche le dimensioni enormi del luogo non sembravano essere ideali: dopo l’esperienza a Gokarna, in un ashram piccolo e familiare, Amritapuri, con i suoi 3000 residenti, pareva tutto fuorché un luogo in cui trovare il clima adatto alla meditazione e allo yoga.

Ma poi abbiamo cambiato idea.

Nel corso dei giorni, i loro racconti hanno suscitato la nostra curiosità. Inutile giudicare senza aver visto. Inutile farsi un’idea sulla base delle tantissime notizie che si trovano su Internet al riguardo; positive, ma anche negative, in grandissima parte. Non restava che andare di persona.

L’ashram di Amritapuri sorge a pochi chilometri da Karunagappally, nel luogo dov’è nata e cresciuta Amma; la stalla che fu convertita in tempio, con il benestare del padre, affinché ella potesse abbracciare chiunque lo desiderasse, è oggi adibita a luogo per la “puja”, una sorta di preghiera induista o atto di adorazione verso una divinità. Nel corso degli anni, ad Amritapuri, sono stati costruiti moltissimi edifici, alcuni adibiti ad accogliere le persone che hanno fissa dimora nell’ashram, altri i visitatori temporanei; si trovano inoltre shops di vario genere, un piccolo supermercato, una biblioteca e una piscina, con orari differenti per uomini e donne. Poi c’è il grande padiglione, con le varie mense nelle vicinanze, e il tempio della dea Kali. Tutt’ora lo spazio risulta in espansione. I due palazzoni centrali, a primo impatto, stonano all’interno della cornice della folta e rigogliosa vegetazione circostante. Dai piani più alti non si riesce ad individuare la fine della giungla sottostante, che corre incanalata tra la spiaggia e il fiume. Lo spettacolo della natura è assicurato, soprattutto all’alba e al tramonto, quando il chiacchierio di migliaia di uccelli anima tutto il circondario. Inizialmente lo sviluppo dell’ashram è avvenuto in altezza, poiché i vicini contadini non erano in alcun modo intenzionati a vendere le loro terre. Soprattutto per una causa come quella di Amma, una donna che, nell’India di 50 anni fa, iniziò ad abbracciare tutti: donne, bambini, anziani e addirittura uomini!!

Inutile dire che non ha avuto vita facile. Nemmeno tutt’ora a dire il vero.

Già, perché se tanti hanno trovato conforto in lei, altrettanti l’hanno ripudiata… e non solo nella sua terra natia. Anche nei motori di ricerca dei nostri computer è piuttosto facile trovare blog interamente dedicati alle critiche, piuttosto pesanti, nei confronti di questa donna.

Per chi risiede ad Amritapuri da anni e la venera come “guru”, Amma è una santa a tutti gli effetti. Una che trascorre la maggior parte del tempo spostandosi da una parte all’altra del mondo, per abbracciare le persone e donare loro amore e consolazione. Il suo “darshan” o abbraccio (letteralmente “contatto con il divino o benedizione”) ha risollevato molti da una vita avvolta dalle tenebre, senza più speranze da riporre in una fede religiosa, né valori cui fare riferimento.

Le opere umanitarie e i progetti di finanziamento scolastico, sociale, sanitario e ambientale, sostenuti da istituzioni a lei direttamente collegate, quasi non si contano. E non hanno altro scopo se non quello di offrire aiuto, anche laddove accadono calamità naturali di enorme portata.

Per quanti non la vedono di buon occhio invece, Amma è poco più che una cialtrona; una che vende i suoi prodotti, con tanto di marchio registrato, non tanto per sostenere gli innumerevoli progetti avviati, ma per lo più per business. Vi sono testimonianze di monache, un tempo grandi devote, che denunciano anni di insopportabili ritmi di vita a suo seguito: sempre in viaggio, sempre a disposizione di Amma nei suoi interminabili “tour dell’abbraccio”.

Noi non proveremo a sostenere una tesi, smontando l’altra. Possiamo solo parlare per noi, per quella che è stata la nostra esperienza ad Amritapuri.

Di certo non siamo diventati dei seguaci fedelissimi… non al pari di quelli che, durante la serata dell’Holy Festival, erano completamente assorti nella contemplazione di Amma, anziché gustarsi lo spettacolo di danze tradizionali. Ma non possiamo nemmeno negare che il tempo trascorso ad Amritapuri sia stato un vero toccasana, per il corpo e per la mente. Nonostante la quantità di persone, ci siamo ritagliati il nostro spazio, su uno dei tetti dei vari edifici, per praticare yoga la mattina. Così abbiamo fatto anche per la meditazione a spiaggia, al tramonto, di fronte all’enorme palla infuocata che lentamente scendeva a riposare dietro la sottile linea del mare. Uno spettacolo senza eguali nel corso del nostro viaggio. Abbiamo conosciuto persone differenti, con storie differenti. Qualcuno anche un po’ scorbutico e apparentemente non in sintonia con ciò che ci si potrebbe aspettare all’interno di un ashram. Ma la vicinanza con il proprio guru crea anche questa contraddizione, in quanto la persona prima di offrire il meglio, tira fuori il peggio di sé. Quest’ultimo viene eliminato poco alla volta, fino a che l’individuo non si sarà ripulito completamente. Così ci è stato detto.

Il “karma yoga” ci ha permesso di conoscere “Anam”, che significa “la senzanome”, così la chiameremo. Una signora, probabilmente inglese, che non ha riferito alcunché in merito al suo passato, ma che con estrema gentilezza, e anche difficoltà di movimento, ha coordinato il “milk team”, ovvero il gruppo addetto al lavaggio dei pacchetti di plastica del latte, destinati al riciclaggio. Si è limitata a spendere poche parole al giorno: un ringraziamento, un complimento, un incoraggiamento. É stata un esempio per il suo spiccato senso del dovere ed entusiasmo, come fossimo impegnati nel lavoro più bello e importante del mondo… Difficile crederci a volte, soprattutto quando la puzza del latte, per via del caldo, si faceva insopportabile e penetrante.

Abbiamo mangiato ottimo cibo, non solo indiano, ma anche decisamente più “western”, in alcuni casi vegan, ma sempre e comunque vegetariano; frequentato un nuovo workshop su una rivoluzionaria tecnica di stretching per l’intero corpo e riassaporato, dopo 7 mesi, il piacere della lettura di un libro vero, non digitale. Ayurveda, alimentazione, spiritualità e yoga: ci siamo sbizzarriti con i temi più vari. Abbiamo provato una sensazione di grande pace e rilassatezza nella vita ad Amritapuri, che a dire il vero, a volte, ci manca. È stata una parte di viaggio differente, in cui abbiamo guardato con maggiore attenzione dentro di noi, piuttosto che “fuori”. Non abbiamo cercato luoghi da visitare, se non quelli del nostro io interiore. Non abbiamo cercato nuove conoscenze, se non quella personale. Talvolta, ciò ha reso difficile lo stare insieme tra noi due soli.

Quando Amma è rientrata dal suo tour nel nord dell’India, con ben 11 pullman di accompagnatori volontari, l’ashram si è riempito di gente. I momenti per beneficiare della sua presenza sono stati molteplici; meditazioni, canti, discorsi durante i quali vi era possibilità di porre domande e un pranzo infrasettimanale, in cui lei ha riempito personalmente i piatti di ciascun commensale.

Noi siamo stati parecchio fortunati, poiché abbiamo ricevuto ben due abbracci. Entrambi un po’inaspettati, poiché arrivati al termine di una meditazione guidata, e non in uno dei giorni dedicati all’ ”abbraccio pubblico”. È stata lei stessa a dire di voler incontrare chi era arrivato da poco tempo ad Amritapuri e quindi noi ci siamo avvicinati! In una ventina di minuti eravamo in prossimità della sua seduta… una monaca le ha detto che eravamo italiani e lei ci ha sussurrato all’orecchio giusto un paio di parole: “Mio caro figlio, mio caro figlio”.

È stata una forte emozione. Non so da quanto tempo non mi capitava di sentire il cuore battere così forte. Personalmente non ho avuto un lungo contatto visivo con lei, mentre con Stefano, in entrambe le occasioni, si sono scambiati grandi sorrisi e gesti d’intesa con il ciondolio laterale della testa, tipicamente indiano. Stefano dice che Amma ha visto che in lui c’era ben poco da consolare… Probabilmente è vero, beato lui che si alza sempre con il piede giusto e il sorriso stampato in faccia!! Chissà cos’ha visto in me… parecchio lavoro da fare!!

Il visto in scadenza è stato l’unico motivo che ci ha costretti a lasciare l’ashram; avremmo prolungato volentieri la permanenza, arricchendola di ulteriori letture e corsi, come quello per imparare in modo più approfondito la meditazione di Amma.

Questa donna, a parer nostro, è avvolta da un’aura divina; lo si percepisce dall’atmosfera che crea intorno a sé. Tra donazioni e vendita di prodotti, i soldi non le mancheranno, ma noi crediamo che siano utilizzati davvero per nobili scopi. Quella di Amma non è di certo la vita di una miliardaria che si gode i suoi guadagni…

Noi, ora, abbiamo maturato la nostra idea e siamo felici di poter dire di essere stati ad Amritapuri.

(Immagine di copertina presa da internet, dato che non era possibile scattare foto all’interno dell’Ashram)

Dov’eravamo rimasti? | Where did leave off?

Lo scorso 21 febbraio, avevamo pubblicato un breve post in occasione dei sei mesi trascorsi dall’inizio del viaggio, tralasciando, temporaneamente, il racconto delle settimane precedenti.

É passato molto tempo, forse troppo, da quando abbiamo iniziato a muoverci lungo la costa sud–occidentale dell’India. Dapprima nello stato di Goa, e poi via via sempre più giù, nel Karnataka e infine in Kerala, dove ancora ci troviamo. Ci siamo fatti trasportare dalle esperienze, in alcuni casi coinvolgenti al punto tale da impedirci di ritagliare momenti sufficientemente adeguati per scrivere, o almeno per provare a raccogliere qualche idea… poi un problema con l’alimentatore del computer… e così le settimane sono volate, senza che ce ne rendessimo troppo conto.

La zona sud di Goa ci ha stupito con un carnevale di verdi paesaggi, costellati di palmeti e colline boscose, case colorate e spiagge, in alcuni casi, poco conosciute. Le stesse dalle quali abbiamo ammirato albe e tramonti, in compagnia esclusiva di pochi randagi. Con un “125” rosso fiammante, ci siamo avventurati alla scoperta di Palm Discovery, Cola e Agonda Beach, soggiornando nella nostra essenzialissima tenda. Non abbiamo incontrato alcun tipo di resistenza al campeggio libero, godendo di un assoluto senso di libertà e della natura in tutta la sua essenziale bellezza… quando non contaminata da orripilanti discariche a cielo aperto.

Proseguendo ancora verso sud, nei pressi di Palolem, abbiamo ammirato le danze dei delfini all’ora del tramonto, a pochi chilometri dalla costa. Qui, i turisti occidentali erano piuttosto numerosi: chi alla ricerca dei diffusissimi corsi di yoga, chi in semplice modalità “relax on”, in una zona in cui negozi, ristoranti, centri massaggio e hotel di lusso fanno facilmente dimenticare di essere in India. Soprattutto se si conosce anche la parte nord del Paese.

Sotto il sole cocente di Kudle Beach, a Gokarna, siamo entrati in contatto con la triste realtà dei venditori di ogni sorta di “chincaglieria”; nulla di strano, penserete, le spiagge italiane ne sono stracolme. Peccato che si trattasse di venditori “in miniatura”, poco più che bambini. L’età anagrafica parrebbe una delle informazioni di più facile accesso nel momento di una nuova conoscenza (a meno che non si tratti di una donna, che in tal caso potrebbe mostrarsi un po’restia a rivelarvi la sua età J). A semplice domanda, generalmente, dovrebbe seguire una risposta altrettanto semplice, trattasi di un numero. Ebbene, a noi sono occorsi più di due giorni per scoprire l’età di questi indianini, costantemente occupati nella ricerca di possibili clienti, ben consapevoli della tenerezza che suscita il loro sorriso ancora acerbo. Si attribuiscono nomi stranieri di fantasia, aumentano in modo esagerato il numero dei loro anni, salvo poi dimenticare quanto facilmente li possano tradire i lineamenti e la costituzione corporea. Dicono di andare a scuola, ogni tanto, ma ciò che conta è il lavoro. Aiutare i genitori è essenzialmente un aiuto per loro stessi, per avere un buon karma.

La verità ? È impossibile scoprire cosa si nasconda dietro i loro sguardi, dietro le parole che paiono prese da un copione, dietro la loro inarrestabile insistenza.
“Signora/e, compri qualcosa?”
“Mi piacerebbe comprare la tua libertà”.

Impossibile capire… ma facile immaginare. Spesso noi stessi ci dimentichiamo che l’India è anche questa: un Paese in cui, nemmeno troppo di rado, i bambini non sono liberi di vivere la loro infanzia; un Paese in cui essere donna, in alcune zone, autorizza troppo facilmente la lapidazione. Forse ce ne scordiamo per via del grande amore che proviamo nei confronti dell’India e di tutta la grande bellezza che in essa è contenuta. Dopo aver faticosamente conquistato un po’ di fiducia, siamo riusciti ad organizzare una breve merenda in compagnia di alcuni di questi giovani mercanti. A Kudle Beach, sono bastati pochi dolcetti e qualche succo di frutta, unitamente alla chiara premessa di evitare ogni tentativo di vendita, per vedere i loro sguardi animarsi di una vivacità pura e spensierata. Due ore piacevolmente trascorse, in cui io e Stefano ci siamo semplicemente detti: “Li abbiamo smascherati. Sono solo dei bambini”. Non abbiamo fatto ciò perché crediamo di essere migliori di altri, non lo eravamo prima e non lo siamo nemmeno ora. Più volte, in questo Paese, abbiamo incontrato bambini che vivono, giocano, mendicano e crescono in strada. Ne avevamo già parlato. Ogni volta ci siamo trovati in preda ad un turbinio di sentimenti… di impotenza, tristezza e rabbia.

“Com’è possibile crescere così? Com’è possibile avere un futuro, quando sono gli stessi genitori ad insegnare che non vi è via d’uscita dall’inferno della strada?”

Domande senza risposta.

A Gokarna ci siamo avvicinati a questi ragazzini-venditori, ancora una volta con l’illusoria pretesa di capire, scoprire, conoscere e dare un senso… quel senso che noi occidentali, troppo spesso, pretendiamo di attribuire a tutto ciò che ci circonda. Abbiamo capito quasi subito che non ci sarebbe stata via d’accesso a quella verità e quindi abbiamo semplicemente provato a trascorrere con loro un pomeriggio di ordinaria normalità. Ci hanno ringraziato infinite volte per la merenda, per poi allontanarsi sotto il sole con il peso della loro mercanzia senza valore… con quei sorrisi ammalianti che credevamo di aver trasformato.

E poi c’è stata l’esperienza allo Shankar Prasad Ashram di Bankikodla Village, a circa 5 chilometri di distanza dal centro cittadino di Gokarna.

Su consiglio di un pizzaiolo italiano di Goa, c’eravamo recati in questo ashram, con il solo intento di visitarlo, giusto per capire le dinamiche del luogo, la routine giornaliera, con tutta la curiosità di chi è nuovo nell’ambiente. Nel nostro immaginario, pensavamo fosse accessibile solo ad esperti conoscitori di yoga, meditazione e spiritualità. Insomma, come succede spesso, ignorando la materia, c’eravamo fatti un’idea tutta nostra.

Sbagliata, ovviamente.

“L’Ashram è un luogo dove si lavora su di sé, internamente ed esternamente”. Così recitava il volantino di presentazione. Ed è così che abbiamo conosciuto insegnanti esperte di yoga, praticanti ultra snodate, ma anche l’americana poco interessata o lo spagnolo che addirittura non aveva mai praticato la disciplina. Nonostante la poca esperienza, ci siamo sentiti a nostro agio e per 11 giorni siamo diventati parte della comunità dello Shankar Prasad. Questa casetta, immersa in un giardino di 2 acri e mezzo, è diretta da Swami Yogaratna Saraswati, monaca di origine australiana, nata in Francia, ma da anni cittadina indiana a tutti gli effetti. “Swami” è un termine che deriva dal sanscrito “svāmin”, ed è un titolo conferito ad un insegnante spirituale particolarmente istruito. Discepola della celebre Scuola di Yoga del Bihar, fondata da Swami Satyananda Saraswati, ha trascorso oltre 30 anni tra gli ashram di Bangalore e il principale di Munger ( il “Mother Ashram”, sede della prima università dello yoga nel mondo). Si è dedicata agli studi e alla pratica della “seva”, conosciuta anche come “Karma Yoga” o “Yoga del servizio disinteressato” (in parole poverissime, lavoro volontario senza retribuzione, per il piacere di essere efficienti). In ragione della sua grande dedizione e saggezza, dopo questo lungo periodo, ha ricevuto la benedizione del suo guru Niranjanananda e la conseguente possibilità di istituire un ashram indipendente.

Quotidianamente, con la sveglia puntata alle 05.20 del mattino, abbiamo partecipato alle meditazioni guidate da Swami, alla recitazione dei vari mantra e alle lezioni di yoga. Insieme agli altri ospiti, provenienti da tutti i continenti, anche noi abbiamo applicato l’arte del Karma Yoga, con lavori di vario genere: cucina, giardinaggio, pulizia degli spazi comuni e cura dei cani. Se avessimo avuto due mesi a disposizione, ci sarebbe stata l’allettante opportunità di collaborare con la scuola dell’infanzia, coordinata dalla fondazione di Swami. Sempre nella modalità di lavoro volontario. Considerati i limiti di permanenza imposti dal visto turistico, non ho potuto far altro che constatare l’impossibilità di svolgere tale attività. Stefano, più che delle consuete mansioni di casa, si è occupato di lavori d’ufficio di vario genere; Swami, infatti, ha il grande merito di organizzare, da sempre, eventi a sostegno della comunità di Gokarna. Parecchie sono state le ore spese per la promozione dell’incontro con un gruppo di medici di Mangalore. Per un’intera mattinata, i dottori hanno sensibilizzato i bagnanti della spiaggia principale, riguardo il problema (serio in quest’area!!) delle morti da annegamento. In seguito hanno poi istruito i presenti, in merito alle manovre di primo soccorso. Oltre ad alcune semplici direttive, durante il Karma Yoga, non abbiamo ricevuto altra istruzione, se non quella di prestare attenzione al momento in sé, al compito affidato: il lavoro volontario è considerato come una forma di meditazione e nulla più, pertanto si è chiamati ad offrire semplicemente il proprio meglio. Nessun timore di commettere errori o di essere giudicati; nessun diritto di giudicare.

L’insegnamento del Karma Yoga è uno dei migliori mai ricevuti, ma non nascondiamo che liberare la mente non è stata cosa semplice. Talvolta, non è stato semplice astenersi da qualche giudizio su altri colleghi. Ma sbagliando, s’impara.

Il corso di “Yoga Nidra”, nelle ore pomeridiane, ci ha consentito di scoprire non solo uno dei veri cavalli di battaglia della Scuola di Yoga del Bihar, ma anche una potentissima tecnica di meditazione e rilassamento. Testi dedicati e ricerche scientifiche riconoscono l’estremo potenziale di Yoga Nidra, nella riduzione di stati di ansia e stress, non solo negli adulti, ma anche nei bambini con problemi di comportamento.

Insomma, non abbiamo solo continuato a percorrere chilometri di strada. Abbiamo continuato a camminare su una strada che è oggettiva, ma anche soggettiva ed interiore. Abbiamo imparato cose nuove, studiando e applicando, e ci siamo anche un po’ “riscoperti”. Da quando siamo stati a Gokarna, pratichiamo quotidianamente yoga, meditazione e alcune semplici tecniche di respirazione. Ne sentiamo la necessità. Personalmente, quel poco che posso dire di avere imparato fino ad ora, ha un effetto calmante impressionante su alcuni stati di ansia che talvolta mi capita di provare. Scendo nel personale, personalissimo, forse per la prima volta. Forse perché provo un benessere fisico e mentale che non provavo da tempo.

Questo cammino introspettivo ci ha un po’ “shakerati”… ed è lo stesso che ci ha condotto ad Amritapuri.

Dopo una settimana di folle esplorazione nella zona delle piantagioni del thè di Munnar, cavalcando la Royal Enfield di un amico e maestro di yoga australiano, abbiamo raggiunto Varkala. Qui ci hanno pensato gli incontri a direzionare  la nostra strada… Le chiacchiere con quattro giovani italiani, unitamente alla voglia di lavorare ancora su di noi, esplorare, smuovere, “tirare fuori”, ci hanno convinti. Da Varkala ci siamo spostati ad Amritapuri, nell’ashram di Amma.

Where did we leave off?

The past February 21st we published a short post to celebrate our 6 month trip, temporarily putting aside the storytelling of the last few weeks.
A lot of time has passed, maybe too much, since we started traveling along the south-west coast of India. Starting from Goa state and then more and more to the south, to Karnataka, and finally to Kerala, where we are now. We were a lot involved in our everyday life, and sometimes we were so much that we did not have time to spend writing or at least trying to collect some ideas… then we had a problem with the computer charger…so the weeks has flown away without we even noticed that.

The south area of Goa surprised us with its immense green landscapes, full of palms and wooded hills, colorful houses and unspoiled beaches. In those same beaches, we watched sunsets and sunrises, just us and few stray dogs. With our red “125” motorbike , we left to discover Palm Discovery, Cola and Agonda Beach, sleeping in our super simply comfy tent. We didn’t meet any people prohibiting us to free camping and we enjoyed the absolute sense of freedom and the nature in all its beauty…when it was not spoiled by horrible open air landfills.

Heading to the south, close to Palolem, we had the occasion to admire the dances of the dolphins at the sunset, few km far from the coast. Here there were quite a lot of tourists: some trying to find yoga classes, some just trying to relax in an area where shops, restaurants, massage centers and luxury hotels make you forget that you are in India. Mostly, if you know the North part of the country. Under the burning sun of Kudrevich Beach, in Gokarna, we met the sad reality of trinkets sellers; nothing weird, you may think, Italian beaches are full of those sellers. The worst part was when we realized that they were all children. Usually, when we ask the age of a person (unless she is a woman, to whom it may appear a little rude), people answer quite spontaneously: a number. In this case, it took us more than two days to discover how old were those children, constantly busy to find new clients, well knowing how everybody feels when talking with them when they smile: softened. They make up new names for themselves, they tell the people a different age from their real one, forgetting how easy it is for us to recognize they are just children simply looking at them. They tell us they go to school, but what is really important is the job. Helping their parents is essential to have good karma.

The truth? It’s impossible to discover what’s under their faces, under their words, which seem to be part of a script, under their unstoppable resilience.
“Miss, buy anything?”
“I’d like to buy your freedom.”

Impossible to understand, easy to imagine. Very often we forget that India is also this: a country where it is very difficult for children to live their childhood; a country in which being a woman, in some areas, means authorizing lapidation. Maybe we had forgotten it because of the immense love that we feel for India and the great beauty of this country. After we gained their trust, we managed to have a short snack with some of the young sellers. In Kudle Beach, it was enough to buy some sweets, fruit juices and to make them promise not to try to sell anything, in order to see their faces smiling. We spent two very pleasant hours in which Stefano and I said to each other “We unmasked them. They are only children.” We did not do that because we think we are better than other people, we weren’t before and we are not now. Many times in this country we met children who live, play, beg and grow up in the streets. We already talked about it. Every single time we felt a whirl of feelings…helplessness, sadness and anger.
“How is it possible to live like that? How it is possible to have a future when your same parents teach you that there is no escape to the evil road?”

Questions without answers.
In Gokarna we approached these children-sellers, once again willing to understand, discover, know and make sense to something that we, as western citizens, absolutely want to attribute to everything. We almost understood straightaway that there was no way to reach the truth and that’s why we just spend an ordinary afternoon with them. They thanked us many times for the snack before we saw them going away under the sun with their valueless goods… but at least with their charming smiles that we thought we had changed.

After that, we decide to experience the Shankar Prasad Ashram of Bankikodla Village, almost 5 km away from the city center of Gokarna.
Under the advice of an Italian pizza maker we met in Goa, we went to that ashram with the only intention to visit it, just to understand how it works, the dynamics, the daily routine, with the curiosity of two beginners. In our mind, it was only a place for yoga experts, for meditation and spirituality. We had made up our personal idea about that.
Obviously wrong.
“The Ashram is a place where you work on yourself, internally and spiritually”. That said the first flyer. That’s how we ended up meeting expert yoga teachers, agile trainees, but also an American girl, very little interested in the yoga thing and a Spanish guy for whom it was his first time with yoga. In spite of our little experience, we felt at ease and after 11 days we became part of the Shankar Prasad community. This little house, in 2 and a half acres garden, is directed by Swami Yogaratna Saraswati, a monk with Australian origins, born in France, but full-fledged Indian citizen since a very long time. “Swami” is a noun coming from “svāmin”, and it’s a title referring to a spiritual teacher particularly educated. She was a Bihar Yoga School pupil, founded by Swami Satyananda Saraswati and she spent almost 30 years between the ashrams of Bangalore and Munger (the “Mother Ashram”, headquarters of the first Yoga University in the world). She dedicated herself to the studies and to the practice of “seva”, known as “Karma Yoga” or “Yoga of the Selfless service” (very shortly: voluntary work, just for the pleasure of being efficient). Because of her great wisdom and dedication, after this long period , she received her guru Niranjanananda’s bless and the possibility to build her own independent ashram.
With our daily alarm at 5:20 a.m., we joined the morning meditations of the Swami, the mantra and the yoga classes. Together with the other guests from all over the world, we also applied the Karma Yoga rules in varied works: in the kitchen, in gardening, in cleaning the common spaces and in taking care of the dogs. If we had had 2 more months, there would have been the tempting opportunity to volunteer in a kindergarten, coordinated by the Swami foundation. Considering the limits of the tourist VISA, we just could not take into account that opportunity. Stefano, more than the usual house chores, was taking care of some office work: in fact, Swami has the great merit of being one organizer of some big events for the community of Gokarna. Many hours were spent in the promotion of the meeting with some Mangalore’s doctors. For an entire morning, the doctors have been raising awareness about the problem of the deaths by drowning (which is very serious in this area!!).
Then, there have been first aid classes (C.P.R) for all the people attending the event.
Apart from some easy instructions, in this period of Karma Yoga, we haven’t been told anything, but to draw the right attention to the moment, to the work that we were given: work is considered as a form of meditation and no more: that’s why you are called to offer simply your best. No fears of making mistakes nor of being judged, no rights to judge neither.

The Karma Yoga teaching is probably one of the best ever received, but we won’t tell that freeing our mind was easy. Sometimes, it wasn’t easy to comment something on the other colleagues, but practice makes perfect.
The “Yoga Nidra” course in the afternoon, let us discover not only one of the most important Yoga School of Bihar, but also a very powerful relax and meditation technique. Scientific researches and dedicated books recognize the extreme power of Yoga Nidra in reducing anxiety and stress not only in adults, but also in children with behavioral problems. So, we did not just kept on traveling kilometres, but we also walked on the interior and personal path. We learnt new things and while studying and applying those rules, we also rediscover a little bit of ourselves.

Since we were in Gokarna, we daily practiced yoga, meditation and breathing techniques. We needed this. Personally, with the little bunch of things that we learnt until now, the yoga and meditation has a relaxing effect on the anxiety and stress attacks of which sometimes I suffer. I go down deep in my personality, maybe because I am now feeling a physical and mental well-being that I did not feel since a very long time. This path really shook us up…and following that, we ended up in Amritapuri.
After a crazy week of discovering the tea plantation of Munnar on the Royal Enfield lent by an Australian friend and yoga teacher, we reached Varkala. Here, the meetings we had, built up our future route… the chats we had with four young Italians and the willingness to work again on ourselves made us to take the decision. From Varkala, we went again to Amritapuri, heading to Amma’s ashram.

A metà strada | Halfway

Martedì 21 febbraio 2017. Un giorno come altri, un martedì che non annuncia nessuna speciale ricorrenza per il mondo intero, ma che a noi provoca un formicolio nella pancia; come l’emozione che si prova quando stai correndo e sei consapevole che, entro pochi minuti, taglierai il traguardo, come quando aspetti dietro la porta un amico che non vedi da tempo o qualcuno che sta arrivando con una buona notizia. Ieri sera continuavamo a ripeterci: “Domani saranno 6 mesi di viaggio: 6 mesi da quando abbiamo rifatto il NOSTRO letto, spento le luci, chiuso la porta di casa dietro le spalle e salutato i famigliari più stretti, cui avevamo riservato gli ultimi momenti di quella mattina d’estate”.

A ripensarci pare di aver fatto mille viaggi, di essere partiti e tornati e ripartiti e ritornati… uno svariato numero di volte.

Un anno fa non sapevamo quando avremmo visto Praga, né se l’avremmo vista insieme; non credevamo possibile che alloggiare a casa di una sconosciuta, nel centro di Varsavia, fosse tanto facile, almeno quanto partecipare ad un concerto nella Sinagoga della stessa capitale polacca. Non avremmo scommesso sul fascino del cielo grigio e nuvoloso della baltica Riga, né sul fatto che avremmo cucinato penne panna e salmone, nella cucina di un ostello, nel cuore di San Pietroburgo.

Non pensavamo che anche i russi giocassero a “UNO” sulla Transiberiana e che, su quello stesso treno, si potesse sopravvivere per cinque giorni consecutivi, giusto il tempo di raggiungere il lato opposto del continente sovietico. Non credevamo che, sotto mentite spoglie, si potessero incontrare affascinanti promesse della musica nella metropolitana di Mosca, né che a fine settembre ci si potesse immergere nelle acque siberiane del lago Bajkal, le stesse che poi si nascondono sotto strati di ghiaccio di lì a pochi mesi.

E poi la cavalcata sulle renne per raggiungere le alte vette mongole, senza possibilità alcuna di entrare in contatto con una vera toilette per 15 giorni; l’incontro con i primi italiani, inerpicati come noi sulla Muraglia Cinese, e l’amore per il cibo del Celeste Impero… un po’ meno quello per la naturale e diffusa tendenza alla commercializzazione di ogni singolo angolo visitabile di quel Paese. Esperienze ed emozioni diversamente uniche.

C’è stata la rabbia per la corruzione al confine tra Tibet e Nepal, che ha interrotto il nostro sogno “senza aerei”: la stessa rabbia che ci ha fatto cambiare itinerario e scoprire la bellezza naturalistica della Montagna Gialla. Solo oggi capiamo quanto sia importante fare dei piani… per il piacere di poterli modificare o stravolgere completamente.

Il viaggio ci ha condotti fino alle alte vette himalayane, dove quasi due anni fa il terremoto, tra le tante vite, portò via quella di un celebre alpinista italiano; oggi, lassù, giovani europei indipendenti portano avanti i loro progetti di aiuto umanitario. Un trekking che ci ha regalato paesaggi mozzafiato e anche una cicatrice, un ricordo indelebile sulla mano destra di Giulia… un segno che per sempre ci rammenterà che in questo cammino non ci siamo fatti mancare proprio nulla.

Non credevamo che il ritorno in India, nelle caotiche e povere strade di Gorakpur, ci potesse ancora sorprendere, né che una manovra finanziaria del governo complicasse il reperimento di contanti per soddisfare bisogni di prima necessità. Ad agosto, ancora non sapevamo che il regalo di Natale più bello sarebbe stato l’arrivo di un famigliare, direttamente dall’Italia.

Non sapevamo che qualcuno avrebbe rubato una delle nostre macchine fotografiche, ma che avremmo comunque scattato tantissime foto con gli indiani, neanche fossimo delle celebrità. Nessuno ci aveva detto che avremmo parlato italiano a Mumbai, con un indiano, e che le scimmie, in alcuni siti particolarmente affollati, potessero rubare biscotti e bottiglie di Coca-Cola ai turisti. Pensavamo che avremmo offerto il nostro aiuto volontario in una delle tante Case di Madre Teresa e invece lo abbiamo fatto in un Ashram, nel sud dell’India.

Oggi, dopo alcuni giorni trascorsi come “mine vaganti e confuse” tra Calicut, Kochi ed Alleppey, stiamo tornando indietro. Ci stiamo dirigendo nuovamente a Kochi, per quello che è solo l’ennesimo cambio di programma nel giro di 96 ore. Va bene così. La maturità del viaggio ci sta lentamente aiutando a capire che non tutti gli errori sono sbagliati. L’avevamo già sentito dire, ma forse ora ne siamo maggiormente consapevoli.

Ieri mattina, non credevamo che avremmo riportato sulla strada “Bella”, la mitica Royal Enfield di un maestro di yoga australiano, con origini italiane, incontrato ad Udaipur ; la stessa motocicletta che, a gennaio, lui e l’italianissima Sara hanno cavalcato per 4000km, da Rishikesh al bollente Kerala. Ora tocca a noi: per qualche giorno, due zainetti, due caschi e una moto sono tutto ciò che serve. Si parte da Kochi.

Non credevamo che… e invece… 

Halfway

Tuesday, February 21st. A day like the other ones, a Tuesday which is not special for any celebration all over the world, but for which we feel flies in the stomach; like the emotion  you feel when you run and you are aware of the fact that in a while you will cross the finish line, like the moment when you have been waiting for a friend for a long time or someone who is arriving with good news. Yesterday night we kept repeating:” Tomorrow will be 6 months since we left: 6 months since we have made up OUR bed, turned off the lights, closed the house door behind us and said goodbye to our closest relatives, to whom we deserved our last moments of that summer morning”. Thinking about it now, it seems that we did a lot of trips, like we arrived and left again, like one thousand times.

One year ago we didn’t know neither that we would have visited Prague, nor that we would see it together; we didn’t think that it was possible to stay in a foreigner ‘s house, in the center of Varsaw, nor that it was that easy, like taking part to a concert in the Sinagogue in that same Polish city. We would not have bet on the charm of the grey and cloudy sky in the Baltic Riga, neither on cooking penne with whipped cream and salmon the hostel’s kitchen right in the heart of Saint Petersburg.

We didn’t think that Russians could play UNO on the Transiberian train and that on the same train it was possible to survive for 5 consecutive days, the time needed to join the opposite part of the Soviet Country. We didn’t think neither that, in disguise, we could ever met the charming stars of the Russian music in Moscow metro station, nor that at the end of September it would be possible to take a bath in the frozen water at Lake Bajkal, the same water that in a few months would have turned into ice.

And then the reindeer trip to reach the Mongolian tops, without the possibility to wash ourselves for 15 day; the meeting with the first Italian people, clambered like us on the Chinese Wall, and the love for the food of The Celestial Empire, less strong leve then for their inclination to put into business every single spot worth visiting . Unique experiences and feelings.

There were the anger for the corruption at the borders from China and Nepal, which has interrupted our “no-flights” dream, the same anger which made us change our itinerary and made us discover the beautiful Yellow Mountain. Only today we know how much is important to have plans….for the pleasure of changing them completely.

The trip brought us till the Himalayan tops, where almost two years ago, among all the lives, it took away the life of a famous Italian alpinist; today, up there, young independent Europeans bring their humanitarian projects forward. The trekking gave us breathtaking landscapes and a scar, an indelible memory on Giulia’s right hand…a symbol that will always remember us that we didn’t leave the fat on the land. We didn’t believe neither that the trip back to India, in he chaotic streets of Gorakpur, would surprise us again, nor that a financial act of the government would have complicated the search for our first necessary needs. In August, we still did not know that he best Christmas present would have been the arrival of a family member straight from Italy.

We didn’t know that some people would have stolen us our camera, but that we still would have shot loads of pictures with Indian people, as if we were celebrities. Nobody told us that we would have spoken Italian in Mumbai with a local and that monkeys could steal cookies and Coke bottles from he tourists. We thought that we would have volunteered in a Mother Teresa house, but we did it in an Ashram in the South of India instead.

Today, after some days spent as “loose cannons” between Calicut, Kochi and Alleppey, we are coming back to Kochi, to start a new plan that we decided in the last 96 hours. It’s ok, the maturity that we grew during the trip allows us to think that not all the mistakes are mistakes. We already knew about that, but now, we are more aware of that.

Yesterday morning, we didn’t know that we would have brought on “Bella” road the great Royal Enfield of an Australian yoga teacher that in January he and his Italian friend Sara rode for 4000km from Rishikesh to the hot Kerala. Now, it’s up to us: for some days, 2 backpacks, two helmets and a motorbike are all we need. We leave from Kochi.

We didn’t believe, but….

Storia di un ragazzo indiano che si sentiva italiano

“Ciao, il mio nome è Nilesh. Sono indiano, anzi “indo-italiano”. Potete chiamarmi Nilo.”

Mumbai è una città dalle dimensioni assolutamente inimmaginabili, tant’è vero che rientra tra gli agglomerati con la maggiore densità di popolazione di tutto il globo. L’aria è assai differente da quella che si respira al nord; gli edifici (stazioni ferroviarie, tribunali, università, biblioteche), così come i giganteschi autobus rossi a due piani, i viali alberati e le chiese cristiane ricordano perennemente un passato, neanche troppo lontano, che la volle colonia europea e punto di riferimento per la compagnia delle Indie Orientali. I ragazzi di Mumbai vestono alla moda e impazzano per l’industria cinematografica di Bollywood; i giovani innamorati sognano di celebrarvi le loro nozze da “mille e una notte”.

Ma Mumbai è pur sempre una città indiana e dunque facilmente soggetta alle contraddizioni, o meglio alla naturale convivenza di opposti. Per tale ragione, non stupisce scoprire che qui si trova uno degli “slum” più grandi al mondo.

Abbiamo conosciuto Nilo grazie all’amicizia in comune con Alberto ed Enrico, cuneesi di nascita, ma milanesi d’adozione per questioni di lavoro. Sei anni fa, Nilo si è stabilito a Milano per frequentare una delle migliori scuole di moda di tutto il Bel Paese, prolungando poi la permanenza per cercare di realizzarvi i suoi sogni di giovane fashion designer. L’Italia è stata, però, poco clemente con lui; dopo quattro anni, la negligenza dei datori di lavoro gli ha impedito di continuare a sperare in un futuro di successo nella città dei Navigli. Contributi non pagati, pratiche di richiesta dei documenti bloccate e la consapevolezza di essere lontano da casa da troppo tempo, lo hanno convinto a fare nuovamente i bagagli e rientrare a Mumbai.

Quando racconta la sua storia, ciò che più colpisce di Nilo è la grandissima tranquillità che lo pervade.

Nonostante la fatica, i sacrifici economici e il distacco prolungato dall’India, il ragazzo non nutre alcun risentimento, né rabbia nei confronti dell’Italia. Nemmeno quando parla della morte della nonna o del matrimonio della sorella, eventi ai quali non ha potuto partecipare per l’elevato rischio di non poter rientrare a Milano. No, nemmeno in queste situazioni i suoi racconti rivelano una vena di quella che potrebbe essere una giustificabile irritazione. Milano gli ha regalato un percorso formativo di grande livello, amicizie fraterne con persone provenienti da Stati differenti, esperienze di lavoro faticose e poco retribuite, ma sempre svolte con estrema motivazione personale. E poi serate di musica, cibo italiano, compleanni festeggiati con il tanto amato tiramisù o con una semplice torta margherita; cene indiane preparate con l’accortezza di utilizzare una dose ragionevole di spezie, domeniche di chiacchiere, confidenze, talvolta dispiaceri, soffocati nella piacevole aroma del caffè della moka. Settimane di vacanze presso le grandi famiglie degli amici pugliesi, condite da giornate di mare, pesce e imprecazioni nel dialetto locale. Ecco perché Nilo ama definirsi “indo-italiano”. Più che il rancore e l’alterazione, conserva in lui questi piacevoli ricordi, nella speranza di poter tornare in Italia ed avviare il proprio business con un nuovo “brand”.

Nilo è una persona estremamente pacifica, tanto da essere disposta ad accettare e comprendere quelle che noi definiremmo  “delle sfighe immani”, ma che per lui sono più semplicemente episodi di vita e come tali non è detto che, a lungo termine, siano del tutto negativi.

“Arrabbiarsi, mantenendo dentro di sé tale sentimento, non ha alcuna finalità. Perché dovrei dire a tutti che l’Italia è un Paese… “del cavolo”, che le persone sono disoneste, che promettono e poi non mantengono? Nessuno mi ha obbligato ad andare in Italia; mi è andata male dal punto di vista burocratico, ma sul piatto della bilancia, il peso maggiore è rappresentato sicuramente da ciò che di bello ho trovato lì. In poche parole, le persone e le esperienze che ho condiviso con loro”.

Con il nostro, amico ci siamo aggirati tra le vie di Mumbai, chiacchierando piacevolmente in italiano… qualche informazione turistica, intervallata da tantissimi e reciproci episodi di vita, nozioni di storia della moda e degustazioni di nuove bevande e cibo di strada (come il dolcissimo succo di canna, ricco di zuccheri naturali, che non avevamo ancora provato, e le gelatine di mango). Moltissime le persone che chiedevano, a lui, il permesso per poterci scattare una foto, convinti che si trattasse di una delle tante guide locali.

Nel corso della nostra permanenza a Mumbai, questa volta in solitaria, non ci siamo fatti mancare una visita al famosissimo Dhobi Ghat, un’immensa lavanderia a cielo aperto. I panni erano impossibili da contare: serie di maglie e camicie dello stesso colore, ma anche blue jeans, intimo e indumenti da lavoro che i lavandai passano a raccogliere presso abitazioni o ditte private. E poi vasche, centrifughe elettriche, grandi pacchi di vestiti puliti, profumo di sapone, bidoni dentro i quali si sterilizzano pezze provenienti dagli ospedali, soppalchi di legno che offrono la possibilità di stendere su più livelli. La gente era entusiasta di concedersi una piccola pausa dalla fatica quotidiana, per poter scambiare qualche parola con noi.E perché non provare a stirare un paio di pantaloni, con uno dei loro vecchi ferri pesanti?

Da Mumbai, la “nostra” strada ci ha condotti all’imponente sito archeologico di Ellora, a circa 30 Km da Aurangabad, città scelta come punto di appoggio per una notte. Le cave di Ellora, insieme a quelle di Ajanta (60 km da Aurangabad) sono complessi di grotte dichiarate Patrimonio Unesco. Le prime celebrano tre religioni dell’India, ovvero buddhismo, brahmanesimo e giainismo; le seconde sono esclusivamente buddhiste, ma i dipinti sono più numerosi e in un migliore stato di conservazione. Durante la visita, un’innumerevole quantità di scolaresche, approdate da ogni dove, si è avventata su di noi per immortalare il momento dell’incontro con i “bianchi”: non è stato troppo difficile acconsentire alle loro richieste. Pur riconoscendo la bellezza e l’estrema raffinatezza degli intagli nelle grotte, e la dolcezza dei piccoli “indianini”, abbiamo accusato pesantemente il colpo inferto dal caldo e dalla presenza di troppi turisti. Ecco perché, in seguito a tale tappa, saturi di visite a templi, cave, musei e quant’altro di bello ci sia capitato nel corso della lunga strada percorsa, abbiamo deciso di dirigerci a Goa.

Unico obiettivo, quello di godere del mare e del sole della costa indiana.

Piacevoli incontri lungo il cammino | Nice meeting on our way

Settimane di incontri significativi quelle che ci siamo da poco lasciati alle spalle…

Dopo alcuni giorni trascorsi a Delhi per capire cosa fare, abbiamo iniziato il nostro LENTO, LENTISSIMO spostamento verso sud.

In una notte di treno, abbiamo raggiunto Udaipur, conosciuta come la “città bianca” per il colore dei suoi meravigliosi palazzi. Il clima piacevole, la bellezza paesaggistica di questo luogo e la tranquillità del lungolago Pichola, dove abbiamo soggiornato, ci hanno entusiasmati fin da subito.

Lasciata la stazione dei treni, ci siamo diretti a piedi verso la zona centrale nei pressi dell’imponente City Palace, costruito a partire dal 1553, in un periodo di circa 400 anni, da diversi sovrani del Mewar del regno di Udaipur. Non abbiamo dovuto dispendere troppe energie nella ricerca di un’accomodation per la notte; moltissimi erano i “procacciatori” di clienti lungo la strada, intenti a proporre stanze a prezzi piuttosto interessanti. Senza pensarci troppo, abbiamo accettato la proposta di un fattorino del Kesar’s Palace Hotel, per poi scoprire che le stanze della struttura, in realtà, erano già tutte occupate. Talvolta gli indiani sono così desiderosi di vendere, che poi dimenticano di controllare se hanno a disposizione la merce… Succede anche questo.

Ma poco ci è importato, anzi; la corta memoria di questo signore ci ha offerto un’allettante alternativa. Kesar, proprietaria dell’hotel, ha aperto per noi le porte di una piccola stanza della sua abitazione, situata in cima ad un palazzo, dotata di bagno e balconcino privati. Oltre a questa speciale sistemazione, la donna ci ha fatto conoscere marito e figli, con i quali abbiamo scambiato qualche chiacchiera e bevuto “chai” in compagnia. Niente male come inizio.

Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, girovagando alla ricerca di un punto panoramico da cui osservare il tramonto, abbiamo fermato una giovane locale per chiedere consiglio. Mai avremmo pensato che quel gesto, ripetuto più e più volte nel corso di questi mesi, ci avrebbe regalato molto più di un semplice scambio d’informazioni. Vanshika, questo il nome della ventiduenne, non si è limitata a rispondere alla nostra domanda, ma si è “improvvisata” guida turistica, mostrandoci alcuni dei migliori “viewpoints” e consigliandocene altri da non perdere nei giorni successivi. Si è prodigata per reperire informazioni sugli uffici con il cambio valuta più conveniente, e sui bus locali diretti a Chittor, vera perla tra i forti del Rajasthan. Ma soprattutto Vanshika si è lasciata andare ad una piacevole chiacchierata confidenziale, raccontandoci del suo passato da impiegata di banca (suona strano vista la sua tenera età) e del suo presente da insegnante. Attualmente infatti, impartisce lezioni private ai bambini di Udaipur per un paio di ore pomeridiane e per un salario decisamente inferiore al precedente. In compenso, però, ha a disposizione tantissimo tempo libero, che dedica volentieri alle amiche e alla sua famiglia. La sorella maggiore ha partorito da poco e dunque c’è bisogno di dare una mano nella cura del piccolo. La ragazza la reputa una cosa del tutto normale: l’affetto per i propri cari viene prima di tutto. Già, proprio così. Nel caso in cui lei, di casta “bramina” (la più elevata, quella sacerdotale), dovesse innamorarsi di un ragazzo di casta inferiore, rinuncerebbe alla relazione. “L’amore verso i miei genitori supera ogni limite. Non fuggirei mai con un uomo” racconta. Noi rimaniamo a bocca aperta, probabilmente il nostro ragionamento sarebbe stato differente. Quanto rispetto per questa giovane e per i suoi nobili sentimenti.

I problemi di salute di Stefano, colpito da una leggera polmonite, ci costringono a letto per un po’; rivediamo Vanshika a distanza di 4 giorni in un ristorante del centro, in occasione della cena. Anche in questa circostanza, non è difficile trovare argomenti di confronto e discussione. Le sottoponiamo alcuni interrogativi che ci frullano nella testa da un po’ e lei risponde con piacere. Vanshika ci spiega perché gli indiani, quando bevono l’acqua, non appoggiano le labbra alla bottiglia: è una questione di rispetto, in quanto l’acqua è sacra ed è fonte di vita; ed inoltre poiché, in tal modo, assumono il liquido più lentamente e questo è un bene per il corpo. In merito ai colori piuttosto bizzarri che alcuni uomini utilizzano per tingersi i capelli, non cela il suo sorriso. “Sono uomini che stanno invecchiando e come tali non vogliono mostrare i loro capelli bianchi. Anziché utilizzare colori più scuri ma chimici, si tingono con l’henné naturale”. Vanshika è divertita di fronte alla nostra curiosità e per tale ragione ci propone un nuovo incontro; questa volta, però, a casa sua.

La sera successiva, in preda all’eccitazione, raggiungiamo l’abitazione seguendo le istruzioni ricevute la sera precedente. La mamma di Vanshika ci accoglie a braccia aperte nella loro minuscola ed ordinata casetta del centro. In quello che si può definire un salotto, che la sera viene adibito a stanza da letto, ci ritroviamo in compagnia di tutta la famiglia, compresi la sorella maggiore con il bambino ed un paio di amici. Il padre è assai timido e fatica a rivolgere lo sguardo verso di noi; non è infastidito, i suoi dolci occhi sono pieni d’emozione. La mamma è un tipo davvero divertente ed estroverso; è insegnante di hindi in una scuola privata di Udaipur e come tale mi sottopone ad un vero e proprio interrogatorio sulla scuola italiana: materie, numero di alunni per classe, stipendi, ore di lavoro. Non esita a chiedermi consigli e suggerimenti in merito ad attività da proporre ai suoi ragazzi (ma io non ho mai insegnato hindi!!). Si definisce un’ottima cuoca ed effettivamente prepara riso con “dhal e chapati” (lenticchie e pane) degni dei migliori ristoranti del centro. La sorella maggiore della nostra amica è una “speaker” radiofonica; in seguito al matrimonio, celebrato 4 anni fa, si è stabilita presso la casa dei suoceri come vuole la tradizione. La sua condizione di neo mamma le concede ora il diritto di soggiornare di frequente presso i genitori. Tra le immagini ritratte nell’album delle nozze, saltano agli occhi non solo i vestiti sfarzosi e i numerosi gioielli che adornano i corpi delle donne, ma anche la quantità di invitati presenti, circa 1300, la gioia iniziale, le danze, le risate ed infine l’immensa tristezza dei saluti, il momento in cui la giovane sposa si appresta a lasciare la casa in cui è cresciuta. Le funzioni della religione induista sono piuttosto numerose e si protraggono per 7 giorni. Tre sono le celebrazioni officiate in onore degli dei di riferimento, per chiedere loro di donare fortuna ai giovani sposi: “Ganesh Puja”, “Mata Ji Puja” e “Bheru ji Puja”. La “Haldi Rasam” è un rituale mediante la quale si preparano il corpo e l’anima alla vita coniugale. Si utilizza una pasta detta “Haldi”, preparata con curcuma, acqua di rose e polvere di sandalo, piuttosto fresca ed appiccicosa, che viene spalmata su piedi, ginocchia, braccia, mani e viso. Anche la “Mehandi Rasam” ha finalità di bellezza e consiste nella realizzazione dei famosi tatuaggi henné, che abbelliscono i corpi dei due innamorati. Poi vi sono il “Mahila Sangeet”, ovvero la festa delle danze, il “Baraat Swagat”, una sorta di saluto di benvenuto ai parenti, da parte della moglie e del marito, e il “Mandap” che rappresenta la funzione del matrimonio vero e proprio con la cerimonia degli anelli. Infine la cena e il “Vidai”, che sancisce “l’addio” della sposa alla casa di famiglia e quindi l’inizio della vita con il marito.

Durante la conversazione, il padre di Vanshika si lascia andare ed inizia a rivolgersi a noi direttamente; mostra dapprima le foto con i suoi vari cambi d’abito, che lo ritraggono fiero ed elegante, ed aggiunge che è stato assai difficile organizzare il tutto in soli 5 mesi. Arriva al punto tale da confidare che è stata la moglie a pagare la loro parte, in quanto lui è malato e pertanto non può lavorare. Parla senza vergogna, anzi, con grande orgoglio nei confronti della compagna. I saluti finali avvengono secondo la “nostra tradizione”, per volontà loro, con baci e abbracci fra uomini e donne, cosa che normalmente qui non sarebbe consentita. Siamo felici di aver trascorso quest’ultima serata ad Udaipur in un contesto così amichevole. Felici di aver incontrato la nostra giovane amica che ci saluta con un “Mi mancherete”.

Le celebrazioni del “Kite Festival”, il Festival degli Aquiloni che ricorda la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, ci convincono a raggiungere Ahmedabad. Tra il 14 e il 15 gennaio, avviene la transizione del sole dal Tropico del Capricorno al Tropico del Cancro ed è dunque questo il momento saliente della cosiddetta “Uttarayan”, una festa che anima tutta l’India ed in particolar modo le città di Ahmedabad e Jaipur. Arrivando dal Rajasthan, lungo le strade, spuntano bancarelle e banchetti che vendono aquiloni di forme, colori e grandezze differenti. Tantissimi gli uomini che si occupano di rifinire i lunghissimi fili con uno speciale impasto di colla colorata e polvere di vetro, per renderli taglienti al contatto. Intere famiglie sono in coda per aggiudicarsi i pezzi migliori: in questi giorni non ci sono limiti d’età, sesso o religione, tutti sono pronti a raccogliersi sui tetti con parenti ed amici per sfidarsi nella battaglia “all’ultimo filo”. I giocatori, con i loro aquiloni, devono cercare di rimanere in volo il più a lungo possibile, tagliando ad uno ad uno i fili degli altri avversari.

Il mio stato di salute, non proprio ottimale, non mi lascia alternativa, se non quella di un ennesimo riposo forzato; Stefano si avventura cosi in solitaria, spostandosi tra le vie della città vecchia, vero cuore dell’evento, lungo le rive del fiume Sabarmati, con gli stand di appassionati da tutto il mondo (anche dall’Italia!!), e finalmente sulla sommità di uno dei tanti edifici in festa. Il colore chiaro della pelle, come spesso capita qui in India, attira le attenzioni di un giovane ragazzino che si aggira curioso tra la gente. Akash Tiwari si occupa della security di un palazzo poco distante ed invita Stefano a raggiungere famigliari e impiegati dei vari uffici, che proprio su quel tetto si stanno sfidando. I presenti sono euforici, la musica divertente e l’arrivo di Stefano, di un “bianco”, rende l’intera faccenda ancora più entusiasmante. Gli scatti fotografici non si contano, così come i fuochi d’artificio e le lanterne che illuminano il cielo di Ahmedabad dopo il tramonto. Il ragazzo è fiero di aver introdotto “lo straniero” ai festeggiamenti privati; chiama addirittura il fratello, che si trova negli Emirati Arabi per lavoro, pregando Stefano di scambiare qualche parola con lui. Quando l’oscurità placa anche gli animi più allegri, giunge il momento di congedarsi. Akash non chiede nulla, se non la promessa di rimanere in contatto, di scambiare di tanto in tanto qualche messaggio su WhatsApp: “Keep in touch, my friend”.

INFO UTILI !!!

Udaipur:

Tra i vari monumenti che meritano una visita, nei dintorni di Udaipur, c’è sicuramente il forte di Chittaugarh, situato a circa 100 km di distanza dalla suddetta città! I modi per raggiungerlo sono molteplici. Ci si può affidare alle agenzie con tour privato in taxi, ad un costo che varia tra le  1800/2200 rupie (1€ equivale a circa 70 rupie); ottimo se si è in 4/5, così è possibile dividere la spesa del mezzo. Seconda opzione, molto interessante, può essere quella di affittare una motocicletta/scooter, sicuramente un pelo più cara, ma senza dubbio più emozionante e con più libertà di movimento all’interno della mura del forte. Per entrare al forte con la motocicletta, dovrete aggiungere 10 rupie al prezzo dell’ ingresso. La terza, quella che abbiamo adottato noi, è la più economica se si viaggia in due o da soli…con circa 80 rupie si raggiunge la stazione dei bus di Udaipur in autorisciò (volendo si può anche arrivare a piedi, se si alloggia nei pressi del lago Pichola) e da qui si può prendere un local bus diretto a Chittaugarh. I biglietti sono di sola andata e il prezzo è di 120 rupie per gli uomini e 90 rupie per le donne. Arrivati al forte Chittor, l’alternativa più economica è quella dell’ autorisciò (impossibile visitare a piedi perché l’area è troppo vasta), che con 350 rupie circa vi guiderà all’interno del forte per 4 ore. Il biglietto d’ ingresso al forte costa 200 rupie.

Ahmedabad:

Dopo esserci rimessi in forze, l’ultimo giorno abbiamo approfittato dell’intera giornata a disposizione; abbiamo visitato dapprima l’Adalaj Stepwell, ovvero il più raffinato dei pozzi a gradini presenti nello stato del Gujarat. Per arrivare, si prende il bus locale numero 401 o 501 in Paldi Rd e con 15 rupie a testa si raggiunge il capolinea di Chandkheda; da qui, con un minibus e con altre 8 rupie cadauno, si giunge nelle vicinanze del pozzo (in circa 30/40 minuti). 10 minuti di cammino e ci si trova davanti all’ingresso! Sulla via del ritorno, riprendendo gli stessi mezzi con un costo di 24 rupie cadauno, ci si può fermare a metà strada nei pressi del Sabarmati Ashram di Ghandi, un bellissimo luogo di pace da dove il Mahatma partí per la famosa “Marcia del Sale” verso Dandi.

Nice meeting on our way

These last weeks were full of meetings… After few days in Delhi spent to decide what to do, we started our SLOW, DEADLY SLOW, trip to the South.

On a night train we reached Udaipur, know as “The white city” because of the color of its marvelous buildings. The climate was pleasant, the beauty of the landscapes of this place and the tranquility of the lake Pichola, where we stayed. We felt enthusiastic since the very beginning.

Left the railway station, we headed to the central area, close to the huge City Palace, built from 1553 and over 400 years by some kings of Mewar in Udaipur reign. We did not spend too much energy in finding an accommodation for the night; many were the “customers’ hunters” along the streets, focused on bargaining and making very interesting deals for rooms. Without thinking too much, we accepted the proposal of a guy from Kesar’s palace Hotel, but later we discovered that the rooms were actually already booked. Sometimes Indian people are so much willing to sell that they forgot to check if there are rooms available.

However it was not a big deal; in fact the short memory of this man offered us another alternative. Kesar, owner of the Hotel, opened for us a little room of her house on the top of a building with a bathroom and a little balcony all for us. Apart from the special accommodation, the woman also introduced us to her husband and her children , with whom we chatted a little and drank “chai”. Not a bad start.

In the late afternoon that same day, wandering around to find a panoramic place where to see the sunset, we asked a young local for advice. Never had we thought that this action, which we did many many times in those months, would have given us not only a mere information exchange. Vanishka, this was the name of the 22 year-old girl, did not only answered to our question, but in that moment she pretended to be our touristic guide and she showed us some of the best viewpoints and suggested us must-see places. She helped us getting all the information about the most favorable exchange money and for the buses to Chittor (the true “diamond” among the Rajasthan forts). But most of all, Vanishka told us about her past, working as a bank employee (which sounded awkward because of her young age) and about her current job as a teacher.  Currently, actually, she spent her time giving private lessons to Udaipur children for a couple of hours in the afternoon and with a very lower salary than the previous one. However, she had a lot of free time which she dedicated to his family and friends. Her older sister had just given birth and so,  help was needed with the newborn baby. She thought this is a normal thing to do: the love for the siblings is above all. Yes, that’s it! In case she, as Brahmin (the highest caste, the priests) would ever fall in love with a guy of a lower caste, she would renounce to the relationship because of Indian non-written law. “The love for my parent goes beyond all limits. I would never run away with a man” she said. We had no words. Maybe because our answer would have been different. How much respect for this young woman with noble feelings.

Stefano had a little health problem: he got a light pneumonia and this made us stop for a while. We saw Vanishka again after 4 days, we had dinner together in a restaurant in the city center. Also in this circumstance, it was not difficult to find something to talk about with her. We asked her some questions we had been thinking for a while, and she answered with pleasure. Vanishka told us why Indian people do not put their lips to the bottle when drinking: it’s a matter of respect, water is sacred and vital for life and also because in that way, they ingest water slowly, which is better for the body. According to our question about the pretty old men who die their hair with strange colors, she smiled and told us “They are already quite old and they don’t wanna show their white hair. Instead of using chemical darker colors, they use henna, which is completely natural.” Vanishka appreciated our curiosity and offered us to meet again but this time, at her house.

The night after, very excited, we reached the house following the instructions she gave us the night before. Vanishka’s mom welcomed us with a big hug in their tiny but tidy house in the city center. In what can be defined as the living room (which turns into a bedroom at night), we met all the family, also the older sister with the baby and a couple of friends. Her dad was very shy and he could not look at us very much, he was not irritated, because his eyes were full of excitement and gratitude. Her mom was a very funny and extrovert woman; she is a teacher of Hindi in a private school in Udaipur. She started a real interrogatory about Italian schools: subjects, students per classes, salary, work schedule. She did not hesitate to ask me suggestions about new activities for the students (the only thing was that I had never taught Hindi in my life!!). She defined herself as a good cook and actually she prepared a “dhal and chapati” (lentils with Indian bread) which was worth the the best restaurant  downtown. The older sister is a radio speaker; after her marriage 4 years ago, she had to move to the in-laws’ house to follow the tradition. Being a mom now, gives her the right to go often to her parents’ house. Watching the marriage photos, not only did we notice the rich dresses and jewels which decorated the body of the women, but also the number of the guests: almost 1300. The joy of the guests who attended the marriage, the dances and laughs and finally the deep sadness when the bride had to say goodbye to her parents and to the house in which she had grow up.

The Hindu ceremonies  are quite a lot and they last for 7 days. There are three ceremonies for the most important gods, in order to ask them to wish good luck to the married couple:” Ganesh Puja”, ” Mata Ji Puja” and “Bheru Ji Puja”. The “Haldi Rasam” is a ritual through which the body and the soul are prepared for the marriage. They use a paste called “Haldi”, prepared with curcuma, roses water and sandals powder, kind of fresh and sticky, which they put on feet, knees, arms and face. Also the “Mehandi Rasam” is about beauty during that one, they make henna tattoos. Then, there is the “Mahila Sangeet” , that is the dance party and the “Bahrat Swagat”, a sort of welcome party for the relatives on behalf of the wife and the husband. Also the “Mandap” there is which represents the real marriage with the ring exchange. Finally, the “Vidai” which represents the real goodbye of the wife to her parents’ house and the beginning of the life with her husband.

During the conversation, Vanishka’s father relaxed a little bit and started talking directly to us. Before, he showed us the photos where he changed his dresses, which portrayed him very elegant and proud, and he added that it was quite difficult to organize everything in only five months. He even told us in confidential way that it was his wife that paid their part, because he was ill and he could not work. He spoke without shame, very proud of his life partner. We said goodbye to them following Italian tradition: hugs and kisses (they were willing to do it!!) also between men and women, which was something not allowed here normally. We were glad to have spent our last night here in Udaipur in such a familiar environment. Glad to have met our young friend who told us “I missed you” and then said goodbye.

The “Kite Festival” celebrations, which determined the end of winter and the beginning of spring, convinced us to reach Ahmedabad. Between 14th and 15th of January there was the “Uttarayan”: when the sun goes from Tropic of the Capricorn to the Tropic of Cancer. This is one of the most popular festivals in India, mostly in Ahmedabad and Jaipur. Coming from Rajasthan, in the streets, there were plenty of stalls selling kites of different colors, size and shape. Many people fixed  the strings with a glass paste in order to make them sharp. Lots of families were queuing to take the best pieces: during these days there are no differences of sex, gender or religion because everyone gathers on rooftops of the houses with family and friends and challenge anyone else to the “last string battle”. The players have to keep flying their kites and try to cut one by one the other kites’ string.

My health, not very good those days, kept us in the hostel once again. Stefano ventured alone, walking in the streets of the city, the heart of the event, alongside the river Sabarmati covered with the stands of kites from all over the world (even from Italy!!) and also on the top of a building where celebrations took place. The fair skin, as often happens here in India, attracted a young curious guy walking among people. Akash Tiwari was a security employee of a building not far from there and he invited Stefano to join the families and employees of the offices who were challenging on the rooftop. The people were euphoric, the funny music and the arrival of Stefano (the WHITE guy) , got them even more enthusiastic. The photoshoots were countless, like the fireworks and the lanterns illuminating the sky of Ahmedabad after the sunset. The young guy was proud to have introduced a foreigner to the private celebrations; he even called his brother, who worked in the Emirates, asking Stefano to talk a little with him on the phone. When the darkness of the night stopped even the more enthusiastic people from flying kites, that was the moment to say goodbye. Akash did not ask anything, only made Stefano promise to keep in touch, to send sometimes some texts on WhatsApp :”Keep in touch, my friend!”

USEFUL INFO!!

Udaipur: 

Among all the monuments which are worth visiting, close to Udaipur, there is fort Chittaugarh, located at almost 100km from the city! There are multiple ways to reach it. You can rely on private agencies with private tour in taxi and the cost may vary from 1800/2000 are (1 euro= about 70 Rs). It’s perfect if you are 4/5 people so that it’s possible to share the costs. Second option, very interesting, you can rent a motorcycle/moped, maybe a little bit more expensive, but more exciting and then you are free to move wherever you want in the fort. To enter the fort with the motorcycle you need to pay 10 Rs more at the entrance. The third option was the one we chose, the cheapest one if you travel in couple or alone..For around 80 Rs, you can reach the bus station by rickshaw (you could also reach it walking if you live close to Pichola lake) and here is possible to take a bus directed to Chittaugar. The tickets are one way only and it’s 120 for men and 90 for women. When you get to the Chittor fort, the cheapest option is to take an auto rickshaw (it’s impossible to visit by walking, because it’s a huge area)  and pay 350 Rs for a 4 hour guided tour. The ticket of the fort is 200 Rs.

Ahmedabad:

After we recovered, the last day we were  busy all the time. Firstly we visited the Adalaj Stepwell, that is to say, the most refined well with stairs, in the state of Gujarat. To get there, you take bus n. 401 or 501 in Paldi Rd and with 15 Rs each, you can get to the last stop Chandkheda; from here with a minibus and other 8 Rs each, you get close to the well (in about 30/40 minutes). After 10 minutes walking, you are in front of the entrance!! On your way back, taking the same means of transport with the same prices, you can stop  halfway close to the Gandhi Sabarmati Ashram, a great place of peace where the Mahatma started his famous “Salt March” towards Dandi.